videobrodaglia
27.7.05
  tributo a Edward Bunker
Il 19 Luglio è morto un genio.
Quanta gente se n'è accorta? Gli appassionati lettori dei suoi libri hanno sicuramente risfogliato in questi giorni almeno uno dei suoi capolavori per ricordare, qualora ce ne fosse bisogno, lo stile e le vere storie di sopravvivenza criminale di cui è stato testimone o di cui cmq ha sentito parlare dai suoi "attori". Chi ama i noir, i crime-novel/crime-movie, l'hard boiled... non può non conoscerlo.

Edward Bunker aveva 71 anni. Non sto di certo qui a scrivere in poche battute la sua storia personale, basta leggere alcune sue dichiarazioni per capire che era un detenuto intellettuale, uno che ha passato molti anni in carcere e che ha scelto di salvarsi scrivendo storie che sono la realtà dei fatti accaduti. Una rarità. E tutto questo grazie anche a un quoziente intellettivo sopra la media.

Venerato da due grandi, James Ellroy e Quentin Tarantino che gli affidò la parte di Mr Blue in "Le Iene", ha sempre scritto storie di criminali viste dal punto di vista criminale, analizzando in tutte le sue sfaccettature il sistema penitenziario americano. Il grande romanzo che me l'ha fatto conoscere è "Come una bestia feroce" e non posso non assicurare che ciò che dice Ellroy del protagonista è assolutamente vero: "non uscirete intatti dal vostro incontro con Max Dembo".
(il sottotitolo del blog è una citazione da pag. 129)


Da St. Quentin a Quentin Tarantino
Intervista da I Miserabili

 
25.7.05
  Adaptation. (Il ladro di orchidee)
"Tu sei ciò che ami, non ciò che ama te"

Due parole per descrivere di che film si tratta: la storia originale della ricerca dell'originalità di una storia. Ma anche la drammatizzazione dell'esigenza ossessiva (o l'ossessione dell'esigenza) di trovare nella natura la causa scatenante del suo movimento, della sua evoluzione, del suo continuo adattamento... a se stessa.
Spike Jones si inchina alla bizzarra originalità della persona e del genio dello sceneggiatore Charlie Kaufmann e realizza il film sulla scrittura (ma soprattutto del tentativo di scrittura) della stessa sceneggiatura: ne esce fuori un film pieno di parole, sensi e riflessioni assolutamente non pesanti, non filosofiche, sulla vita, la sua origine, la menzogna e chi più ne ha più ne metta. Charlie Kaufmann suo malgrado è un eroe del tormento interiore, della solitudine per sociopatia, ma anche l'eroe del genio che infine riuscirà a partorirsi fregandonese (come tutti i genii) delle regole del successo. L'interpretazione che dà Nicholas Cage (somigliante, volendo, anche a Depardieu, come da disposizioni!) dei due gemelli è ottima, Chirs Cooper e Meryl Streep sanno camuffarsi in qualcosa di veramente insolito: personaggi che, quasi allenianamente, escono fuori dalla sceneggiatura ed entrano nello schermo.
La tesi del film di Kaufmann-Jones di lasciare da parte almeno per una volta il mutamento dei personaggi di(in) una storia per narrare l'essenza di un fiore (della natura), viene controprovata e fatta cadere dall'impossibilità del suo demiurgo di non farsi coinvolgere: è inevitabile che entri in essa donandole il movimento che le necessita. È la complementarità tra autore ed opera alla base della riflessione di Kaufmann-Jones. Non solo. Credo che la riflessione riguardi anche la necessità esistenziale di evitare di diventare i propri pensieri, non farsi coinvolgere troppo da essi tanto da restar chiuso in una trappola senza risposte giuste che permettano di uscire. Il personaggio dello scrittore è cmq la vera rappresentazione del demiurgo onnipotente perchè la sua capacità di oggettivare le proprie parole nella scrittura di una sceneggiatura e poi nelle immagini del film, riesce a tirarlo fuori dalla trappola in cui sarebbe potuto rimanere. Il suo potere è nell'inventare-illudere-mentire personaggi che siano i suoi alter ego (il gemello è il massimo che può concepire) in modo tale da riuscire ad avere una visione oggettiva, complessiva della sua creazione (non solo artistica ma anche e soprattutto cognitiva, psichica, etc...).

Pellicola originalissima per i suddetti motivi ma anche perchè mette furbamente in scena, in una storia apparentemente vuota, il messaggio più semplice possibile, quello di saper amare se stessi (nel senso più universale possibile).
 
24.7.05
  Boiling Point
Ciò che mi fa ricordare questo film è il finale che circolarmente restituisce le prime immagini della sequenza iniziale. Un percorso che si ripete? Che fine ha fatto il protagonista nella scena finale? Non vedo come possa esserci una parvenza di maturazione in questo personaggio se non una riproposizione ironica dell'intenzione di rispettare il detto "non disturbar il can che dorme".

Il protagonista è un ragazzetto che assiste pigramente a una partita di baseball senza volervi partecipare; ha un lavoro in una modesta pompa di benzina ma non si sforza di fare il proprio dovere. Quando un boss della yakuza inizia a spiengerlo per non aver pulito bene la sua auto, Misaki, il ragazzo, si oppone scatenando la sua rabbia e mettendo in difficoltà la stazione di servizio per cui lavora. Deciso a farsi giustizia personale, cerca qualcuno che gli venda delle armi per poi ucciderlo. Le armi gli verranno procurate da uno yakuza (Kitano) particolarmente bizzarro e violento: un personaggio che può da solo rappresentare tutta l'assurda violenza di un comportamento che vuole dimostrare la sua esistenza. Fa scopare sua moglie al suo amico per poi accusare lui e la moglie di tradimento: al primo gli taglierà un dito, la seconda verrà schiaffeggiata continuamente. Tutta la storia e i personaggi sono all'apice dell'insensatezza; è molto probabile che non esisterebbero se qualcuno non li avesse mossi-disturbati dalla loro naturale e universale quiete. La buffoneria, l'ironia, il gioco sessuale e la prova di coraggio e lealtà sono tutti elementi che vengono rimpastati per sorprendere lo spettatore a cui non resta che sorridere per quello che sta vedendo.


Nel film prende corpo anche l'onnipresente critica di Kitano alla società della yakuza. I suoi appartenenti sono ridicoli, piccoli e sempre più insignificanti: ci accorgiamo di essa solo perchè uno di loro sa ribellarsi alla saggezza infantile che rappresentano con un infantilismo più ironico anche se più autodistruttivo. Questa piccola storia di vendetta quasi corale, questo piccolo viaggio senza movimento, resta un unico grande gioco in mano al regista e lasciato temporanemente in quelle degli spettatori in modo che essi si divertano in altrettanto modo. Il cinema di Kitano si ripete essenzialmente in questo. Pur facendo un maestrale uso dell'ellissi, Boiling Point (titolo un pò lontano da quello strano originale) però non attrae se non alla seconda visione. Il ritmo di Kitano va digerito, una visione non basta, è necessaria un'altra per vedere una narrazione più veloce e meno adagiata nella parte centrale. I momenti precedenti all'incontro con lo yakuza violento, secondo me dovrebbero essere meno prolissi. Solo l'entrata in scena di Kitano ristabilisce una certa curiosità per il film. È infatti eccezionale la sequenza (la più violenta) del flash-forward, l'unica in cui ci sbatte in faccia il sesso e la sua morte senza che ce ne rendessimo conto.


(fine. almeno per il momento)
 
21.7.05
  Scotty, ceneri nello spazio


Scotty, ultimo teletrasporto.
Dopo Bones-McCoy è morto anche l'ingegnere della mitica prima Enterprise.
In un
episodio di The Next Generation veniva ritrovato miracolosamente dall'ingegnere LaForge in uno stato di ibernazione all'interno del fascio di teletrasporto di una nave... troppo lungo da spiegare. La realtà soppianta l'immaginazione e nessuna tecnologia in grado di preservarcelo per i prossimi due-tre secoli :) Con lui se ne va una parte di quell'equipaggio il cui senso dell'avventura e dell'esplorazione non è stato superato nemmeno da Picard & Co.
 
19.7.05
  La felicità non costa niente
Argomento ozioso la felicità? No, semmai scomodo e a rischio di retorica; parlarne è come rompere un tabù non solo cinematografico e Mimmo Calopresti ha saputo dimostrare che lo si può fare senza scadere nella banalità e nella leziosità.

Egli interpreta un brillante architetto con una buona famiglia e una buona situazione economica che a seguito di un incidente inizia ad aprire gli occhi su quello che rappresenta il suo modo di vivere, le sue amicizie e gli affetti. Depressione, alcol e una fugace relazione extraconiugale lo portano a distaccarsi da sè quel giusto per poter scoprire con grande sorpresa che la felicità è nel tempo che può dedicare a suo figlio.
La semplicità della storia viene riempita da uno sguardo schietto e diretto, con una narrazione sicura e chiara: tutto il film è una voce, anzi la ricerca della propria voce interiore. Sussurra, urla e scaglia parole contro gli affetti, la religione, l'ipocrisia e il cinismo dei rapporti umani, per farci sbattere contro il vero senso della felicità. Quello di Calopresti è un cammino in una Roma fatta di monumenti, strade, spazi dove aiutare gli ultimi, in un provvisorio buio che accoglie e fa (re)incontrare persone che non possono restare sole troppo a lungo. La determinazione del protagonista nello scontrasi con se stesso (in uno slancio autodistruggente) e col resto del mondo, è una micro-rivoluzione che ha nel suo profondo il senso di colpa per aver causato indirettamente la morte di un suo operaio. Interpretato da un bravo Peppe Servillo (che firma insieme agli Avion Travel un'azzeccata colonna sonora.. la canzone nei titoli di coda non è affatto male), l'operaio diventa un fantasma con cui instaura un dialogo di filosofia e psicologia spiccia, dando così spessore ad un altro dei temi correlati a quello della felicità: l'opposizione tra ceto benestante e operaio.

In conclusione "La felicità non costa niente" è un film che si fa apprezzare perchè sa rappresentare uno stato d'animo inafferrabile, sa farci scoprire senza invadenza e con coraggio e determinazione la ricerca esistenziale di quei momenti sommersi da troppa superficialità. E non è poco.
 
18.7.05
  Certi bambini
Uno sparo e il morto, gli undici anni d'età e tutte le periferie del Sud che fanno da sfondo. Nessuna denuncia sociale, solo la storia del viaggio di iniziazione alla criminalità di un qualsiasi ragazzino cresciuto in una delle periferie del Sud. In questo ed altri modi, i due registi-fratelli Fazzi, e prima di loro lo scrittore Diego De Silva che ha fornito il testo di cui il film è un adattamento, danno un senso universale alla maturazione sconcertante di quei bambini sui quali pesa una condizione esistenziale insostenibile, appartenente al mondo della sopravvivenza quotidiana.
Tutto il film è il viaggio in metropolitana dell'undicenne Rosario che dovrà compiere la sua prima uccisione; prima della fatidica fermata della metro, i suoi pensieri torneranno a vari momenti del passato: quando si curava della nonna, quando si occupava del volontariato, quando giocava rischiosamente con gli amici e mentiva loro sull'ingravidanza di una ragazza più grande di lui. Sigaretta tra le labbra e obbedienza a quegli adulti di cui non dovrà avere più paura, sono i segni e i passi dell'irreversibilità di una maturazione che andrebbe salvata; ma la storia non da spazio a sogni o a strade diversamente percorribili. La speranza si piega e si spezza nelle frasi menzognere, negli occhi fissi in quelli della vittima per farle più paura, nella prostituzione di una bambina...
La peculiarità del film sta nel saper far lampeggiare i flash-back tra i pensieri del ragazzino, rendendo così la narrazione più interessante; ma forse è soprattutto la non localizzazione della vicenda che rende il film più memorabile e aperto, e sopratutto più universale. La città di Napoli non viene mai nominata nè fatta vedere esplicitamente (l'immondizia, il traffico, il caos non si vedono), nonostante il dialetto sulla bocca dei personaggi sia proprio quello partenopeo (qui abbastanza italianizzato). Alcuni buoni momenti (la prova di coraggio sulla tangenziale, gli insegnamenti del camorrista, etc..) e alcune buone interpretazioni (la ragazza soprattutto, ma le faccie di tutti bambini sono troppo pulite...); decisivo è il montaggio, ma la regia abbastanza altalenante. Unica pecca davvero visibile è la fotografia: lo studio della luce perfetta per ogni inquadratura alla lunga diventa insostenibile, aggredisce tutto il resto. Un pò di sporcizia tecnica non avrebbe fatto male ai controluce e ai colori anche troppo accesi.

Appoggio a piene mani dello Stato per la realizzazione della pellicola, destinazione per il pubblico più ampio possibile... però mi rimane un senso di inefficienza: un film del genere perchè non va in fondo alla radice del malessere sociale, perchè non prova a fare anche della denuncia più ruvida?
Giudizio positivo, ma voglio vedere anche una storia più sporca e mirata.
 
14.7.05
  trailer
Impazzisco per i trailer. Se entro in ritardo in sala e me li perdo va a finire che mi gioco il film. Le sale stanno chiudendo e in quelle misere dei multiplex ancora aperte proiettano film già visti, non mi resta che cercarmi la dose su apple.com/trailer o spacci affini...

Qualche perla che attendo di vedere nella prossima stagione la puntineggio qui (puntineggio?).


La sottile linea rossa è ormai tra i capolavori. Il nuovo-molto- atteso film di Terrence Malick è
The New World, che si ispira al racconto di Pocahontas e ha come interprete principale Colin Farrell. Si vedrà. Il trailer non ci mostra molto del film e forse è buon segno. Sul sito si può addirittura leggere un blog aggiornato e vedere 2-3 video, se non scaricare un file podcast.


Ancora nessun trailer per
Southland Tales di Richard Kelly. È però on line il sito che farà da supporto per le innumerevoli spiegazioni che non verranno date nel film, un'altra furbata tipo libello della Sparrow... Da scaricare solo l'enigmatica musica di sottofondo.


Senza tanti giri di parole,
A Scanner Darkly è da attesa spaspodica. Lo è sempre stato, da dickiano dipendente..
E l'immagine è d'obbligo.




Ci infilo anche un documentario La marcia dell'imperatore costruito come un film, nel senso che il regista francese Luc Jacquet ha ripreso l'emigrazione di centinaia di pinguini in modo tale che ne ricavasse una storia d'amore/amicizia. Tutto questo per non badare alle spese del digitale. Dal trailer sembra esserne venuto fuori un ottimo film per i paesaggi, ma un pò ridicolo (sperso di sbagliarmi) per le situazioni tra i pinguini create dal montaggio.
Piccola nota: la voce è di Morgan Freeman, ormai viene pagato solo per le corde vocali.
 
11.7.05
  Sympathy for Mr Vengeance
Una vecchia vhs registrata da Raisat CinemaWorld: le immagini non sono molto limpide e forse anche il doppiaggio italiano va a danneggiare il tutto (per due parole che gli attori pronunciano... non so). È uscito il dvd da poco, ma quella cassetta era lì a prender polvere e finalmente ho avuto tempo per vederla con calma.

Da questo film non mi aspettavo nient'altro che la conferma dello stile di un regista da tenere d'occhio. Old Boy mi ha piacevolmente sorpreso, ma questo primo capitolo sulla vendetta coreana mi lascia con un certo amaro in bocca. Prima di tutto non possiede il ritmo del secondo capitolo. La lentezza delle immagini non è estenuante, non annoia come avrebbe potuto, costruisce invece una (sur)realtà arida di umanità e compassione, la comprensione della natura umana passa per qualcosa di viscerale. Non mi sembra che nei personaggi di Park si perda o si ottenga qualcosa: lui come Kim Ki-Duk sembra che stia lì a squamare un pesce (o qualsiasi altro animale) per poi rigettarlo nel mare. Si prende, si toglie e si restituisce. L'immagine presa di sana pianta da The Isle dell'altro coreano, credo sia essenziale per capire che tipo di cinematografia si ha di fronte vedendo questo e altri film dello stesso ceppo. Che poi ci siano delle differenze tra i due registi è ovvio, ma non mi va di dire a pensare nient'altro adesso.
Questo "Sympathy for Mr Vengeance" è davvero scarno. Ciò che credo sia un difetto è proprio la lentezza: avrei preferito un ritmo un pò più rapido, nulla di più. La prima parte (gradualmente fino alla morte della bambina) è quella più ricca di idee e di ironia: nella scena della pianificazione del rapimento, in quella tragicomica del suicidio di un dipendente della fabbrica, e quella magistrale della morte della sorella. Quest'ultima sequenza è senza dubbio la migliore del film. Il protagonista sordomuto e la bambina creano un'atmosfera allegra fino a quando quest'ultima non gli passa un bigliettino scritto dalla sorella: in un attimo il suono off dell'acqua che scorre diventa subito inquietante. L'urlo sordo dela protagonista è qualcosa di allucinante. Da aggiungere a questa anche la scena successiva del seppellimento: il gesto del disabile ha molto di realmente cinico e ironico. Anche questa è magistrale. (incredibile anche il modo in cui il regista fa salire le scale al protagonista quando va a vendere il proprio rene).
Tutta la seconda parte rallenta ancora di più. Torture su torture, vendetta atroce e cane-mangia-cane. Delineato benissimo il protagonista sordomuto nella prima parte, qui si lascia il posto al padre, e su questa figura ci sarebbe da aprire tutto un capitolo su come agisce la vendetta.

Essa agisce nella forma della mutilazione: non si presta, non si vende, non si distrugge niente, ma si mette in scena un meccanismo tendenzialmente infinito in cui qualcuno toglie e prende dall'altro qualcosa.
Il protagonista più che sordomuto, è mutilato nella voce, gli è stata tolta probabilmente dal regista, dal mondo reale ancor prima che la storia inizi, forse dallo spettatore che gode (il concetto di "simpatia" qui si carica di molti più significati di quanti se ne conoscano) nel vederlo senza possibilità alcuna. È cmq certo che il film mette in moto uno scarno meccanismo di asportazione infinita: il mutilato cerca di aiutare la sorella ma viene ancor più privato del suo corpo con l'asportazione del rene; il destino gli toglierà l'unico affetto (il suicidio della sorella, la morte più pesante del film); la bambina morirà a causa dell' ormai impossibile legame tra lui e il mondo (esso lo divora costruendo attorno a lui ancora più silenzio); in ultimo viene cannibalizzato dal padre della bambina che non prova alcuna simpatia positiva verso il ragazzo annullando anche se stesso; il gioco di matrioske non è concluso finchè lo stesso padre non viene ucciso dai terroristi, vero e proprio deus ex machina (non forzato) per far concludere la storia.
Non c'è soluzione/giudizio positivo. E infatti sin dall'inizio la storia dei due fratelli come quella dei due amanti e quella del padre e della figlia alle quali è collegata, pare già decisa. La voce della giornalista racconta la loro storia, e il fatto stesso di essere già raccontata e diffusa la rende condannata ad un vicolo cieco (su questa voce iniziale ci sarebbe molto da dire).


La vendetta #1 si presenta inflessibile nella dose surrealistica di tagli, mutilazioni e asportazioni, ma si presenta anche in modo lento e tutt'altro che fredda (come invece vorrebbe essere servita in occidente). Il concetto di vendetta del titolo si carica di significati e valori che gli danno sfaccettature tutt'altro che banali. Di certo non possiamo considerarlo un sentimento nell'accezione positiva; è invece negativo perchè proviene da persone che non manifestano altre caratteristiche umane prevalenti. Nel film c'è un pessimismo penetrante: gli uomini vorrebbero perdonare, ma non possono/non ci riescono. E allora qual è la soluzione? L'unica è quella di compatirsi (un passo in avanti rispetto al simpatizzare), lasciando che gli uomini trovino il loro debole percorso di vita. Ma nei confronti dello spettatore il regista come si pone? Il film non punta che a far simpatizzare lo spettatore alla vicenda dei fratelli e poi a quella del padre. Ma se la parola "simpatia" nel significato latino significa comunanza di stati d’animo con quelli provati da altri, allora non credo di aver provato simpatia per questi fratelli. È lo scopo del regista presentarmi una storia per cui devo condividere le motivazioni: le capisco, ma non le sento. Lui prova a farmi sentire i motivi della vendetta e della vendita disperata di organi dandomi un pugno nell'occhio con le torture, mi sconvolge ma non mi cattura. In Corea si usa fare così, io non riesco a condividere.

In sintesi, mai come questa volta è azzeccata la frase "lo vedo, ma non lo sento".

 
10.7.05
  Audition
Il più famoso dei Miike ancora non l'avevo visto. Sono passato per l'episodio di "Three... Extremes", qualche scena di "Ichi The Killer" e solo quella d'apertura di "Visitor Q", ma il ben più popolare Audition dovevo ancora toccarlo. Raisat CinemaWorld ogni tanto riesce a passarlo, soprattutto a notte fonda, ma non sono mai riuscito a superare metà del film perchè non mi sembrava proporre nulla di nuovo, e cmq era sempre il momento sbagliato per vederlo.

Cmq, giudizio incredibilmente positivo. Il regista ci passa un messaggio tanto semplice quanto vero (lasciarsi alle spalle il passato e accettare il presente è doloroso, ma è necessario e vitale per poter raggiungere la felicità), ma lo fa con i mezzi dell'horror più sottile ma anche più spietato ed esplicito: torture e amputazioni. Gran film. La prima parte è un salto nel vuoto, tutto è convenzionale e ci si chiede dove sia la novità. Ed è appunto questa apparente convenzionalità che lentamente prepara la tensione: campi lunghi e voci in primo piano sonoro, la ragazza mostrata sempre di spalle, alcuni inserti di lei da sola nella sua stanza/casa con un telefono davanti. Poi il corto circuito. La notte d'amore è tutta tagliata, anzi è un'incredibile sequenza tra l'incubo e la realtà, tra il passato da vendicare e il presente cruento e femminile. L'uomo che crede di poter scegliere l'amante attaverso un furbo e voyeristico provino, viene punito con aghi sotto agli occhi e amputazini degli arti. Pazzesco. Il film può apparire lento, ma è sapiente nello svolgere e misurare la tensione; accontenta i palati fini e spiazza chi crede di aver visto già tutto con i film occidentali (che so... Il silenzio degli innocenti o Seven). Davvero niente male anche l'uso della musica, anzi direi ottima. Ci sarebbe molto altro da dire, come ben sanno diversi cinebloggers con entrambi i piedi nel cinema orientale.


Non so quante volte avrò sentito la solita frase pronunciata con forza e acidità dalle donne: gli uomini sono tutti uguali. Bè, inutile dire che da adesso potrebbe inquietarmi non poco :-O
 
9.7.05
  Spielberg e la sua Guerra
A cinque giorni dalla visione de La Guerra dei Mondi, dopo varie discussioni sul web e dal vivo ma anche sul cellulare, ho quasi perso di vista il film. Capita quando lo si smembra a tal punto da lasciarselo sfuggire e non riconoscerlo più per quello che è nel suo complesso.

L'attesa per il film è stata spasmodica per poche persone, mentre la maggior parte si aspettava il "solito" film dal divertimento assicurato, ma condito in modo diverso e soddisfacente da Spielberg. Delusi proprio per non aver trovato tutto ciò.

Per me in questo film c'è una buona fetta del miglior Spielberg degli ultimi anni. Vedo che si è sforzato, con risultati positivi, nel raccontare una storia (apparentemente pessimistica) con alieni, genocidio e apocalisse che una volta tanto non ci vengono mostratiperchè parte intenzionalmente non inquadrata del film. La macchina da presa è fissa sulla famiglia: tutto il turbinio circostante di morte e disperazione fa da sfondo, perchè il discorso non è sulla sopravvivenza del pianeta, ma su quella del nucleo familiare in una situazione di minaccia non localizzabile. Questo è quello che io ho visto. Molti però si fanno domande sugli alieni, su quanto sia banale che siano stati sconfitti dai batteri... Non mi pare che il film voglia spiegare il come dell'attacco... Sulla scena finale (riunione della famiglia) c'è stata cmq unanimità nel ritenerla la peggiore sia di questo film, che degli ultimi dello stesso Spielberg (certamente più brutta dei tre finali, per me sopportabili, di A.I.).

Durante la visione mi chiedevo se avrei avuto voglia di rivederlo: risposta negativa.
Molto bello per alcune scene (tutta la parte iniziale, il piano sequenza circolare in macchina e l'assalto della folla: le stavo applaudendo), per un buon Tom Cruise (diverso, più bravo), per il sonoro potente, efficace e coinvolgente, per nulla roboante (visione consigliatissima nella miglior sala della città), per Spielberg che in fin dei conti con la macchina da presa ci sa fare, e se gli capita di sgarrare per alcune cose, possiamo chiudere un occhio... anche se non troppo. Bè, nonostatante questo non mi andrebbe di rivederlo, perchè ciò che resta è un discorso sull'uomo affrontato non con la dovuta attenzione.

Alla fin fine credo che Spielberg, per la fama e la bravura che lo circonda, debba saper proporre film più soddisfacenti: se vuole creare una storia sulla paura globale, la sopravvivenza, lo smarrimento post-moderno con un'attenzione alle minoranze etniche, sulla fuga e la truffa globale dei potenti, deve saper accantonare, per quel poco, la sua innata tendenza buonista e realizzare qualcosa di più incisivo. Preferirei vedere uno Spielberg più coraggioso nell'esprimere la propria opinione, più che fare la parte di chi sa solo avvertire il mondo dei pericoli da cui è minacciato.
Minority Report ci vuole far aprire gli occhi sul pericolo di intromissione dei governi e delle economie nelle nostre esistenze negandoci l'identità: ottimo film, più calibrato e convincete de La Guerra dei Mondi. Ma allora perchè non prosegue su quella strada, invece di proporre storie negli aereoporti o cmq in giro per il mondo (in cerca di qualcosa, di un padre...) che sono pur sempre buone ma che non sfondano come dovrebbero?

 
4.7.05
  Scandalo Internazionale
A due anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, Billy Wilder tira fuori questa esplosiva satira sul presidio degli Stati Uniti sul suolo berlinese, utilizzando le dinamiche della commedia brillante e seducendo lo spettatore con le esibizioni indimenticabili di Marlene Dietrich.

Come riesce un tale regista a passeggiare sulle rovine fresche di bombardamenti di Berlino, con una storia d'amore tra un capitano dell'esercito e due donne? L'una era la cantante e amante di gerarchi nazisti, l'altra la piccola e detestabile onorevole moralista americana che appunta sul suo libretto tutti gli scandalosi incontri degli ufficiali statunitensi con le tedesche. Il film si muove grazie a questo personaggio interpretato da Jean Arthur: una prima parte la vede severa e scandalizzata di fronte al degrado morale degli ufficiali, poi piegata dal capitano John Pringle (John Lund) al romanticismo puro ma pieno di equivoci, infine scopre e comprende la reale situazione politica dietro il rapporto tra il capitano e la cantante Erika von Schlütow (Marlene Dietrich).
Billy Wilder con "A Foreign Affair" conduce senza affanni la riflessione sulla vittoria (e il suo prezzo) del secondo conflitto, ma ciò che riesce a colpire di più sono la grande interpretazione della Dietrich (passionale ed intensa, pretende e domina l'attenzione di tutti) e alcune scene eccellenti: quella della seduzione nella stanza degli archivi (la donna che scappa dal bacio dell'uomo per poi cadere tra le sue braccia), tutta la prima parte e il climax finale nel locale.

Sempre a Berlino ma durante la Guerra Fredda, Billy Wilder ha realizzato un'altra delle sue satire corrosive, questa volta sulle ideologie con "
Uno, due e tre!"
 
3.7.05
  Il siero della vanità
Dopo aver visto questo secondo film di Alex Infascelli resto nel dubbio se dargli ancora speranza nel diventare uno dei pochi registi di film di genere, o ritenerlo un autore già alla sua deriva.
L' intenzione di fare una satira sulla tv utilizzando la marca del grottesco abbinata ad una narrazione da thrilling (come per Almost Blue), non è da buttare, ma nel dare forma a questo soggetto di Ammaniti, Infascelli non dona fluidità alla narrazione, crea dei crepacci incredibili tra una sequenza e l'altra. Forse nemmeno tutte gli interessano e si concentra di più su quelle intense, che su altre di sviluppo: l'inizio è molto buono e quasi sullo stesso livello è la sequenza finale della fuga e dello show televisivo. Queste voragini però non riescono affatto a convincere, non creano il thrilling, sconnettono troppo i personaggi: traballa nella pretesa di fare di un videoclip un film, ma Infascelli non è Guy Ritchie.

Nonostante questo grosso difetto, c'è la volontà (che è forse anche presunzione) di realizzare un prodotto diverso, finalmente di genere, che rompa con le solite storie di poliziotti da fiction tv, immergendo gli stessi garanti dell'ordine nello stesso squallido ambiente della tv. Da questo punto di vista il film vuole essere un pugno nell'occhio della tv, anche se non riesce ad andare oltre la sua rappresentazine grottesca, quella dei meccanismi di protagonismo, di vanità, di esaltazione di una personalità che non esiste se non nell'ambito di un gioco delle parti che porta alla morte dei suoi partecipanti (che diventano dunque illustri vittime). Il Sonia Norton Show è solo una versione un tantino esasperata del Maurizio Costanzo Show e di Porta a Porta, che dal canto loro possono fare anche di peggio con i loro sorrisini e la loro volgare ostentazione del potere mediatico.
Il film però si spezza e stropiccia i suoi attori. Molto brava resta Margherita Buy, come anche la Bobulova che ricorda la Melora Walters di Magnolia, e una a dir poco cinica Francesca Neri. Una pellicola con un cast all star, sorretta anche da una stimolante colonna sonora di Morgan che sa davvero tenere la tensione più delle immagini. Insopportabile e ossessiva all'eccesso è invece la canzone di Mina, come anche l'uso del suono: il tecnico deve essere un incompetente se non riesce a farmi sentire i dialoghi.


Alex Infascelli aveva già dimostrato certe "potenzialità" con il cinema di genere in Almost Blue (meglio riuscito, ma sempre con diversi difetti): ma se si buttasse nel remake di un modesto thriller americano?
 
2.7.05
  Africa
Molto più importante del cinema, molto più divertente di un casino di film.






Live 8
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