videobrodaglia
29.1.05
  Il prezzo della libertà
"Siamo tutti delle puttane", "non venderemo mai la nostra arte, nè le nostre idee!"

Il film può essere facilmente compreso anche da un bambino perchè costruito tutto sulla facile opposizione fascismo-comunismo nell'America degli anni '30: c'è chi vende e compra l'arte e chi la rappresenta senza prezzo, per strada, tra le poltrone di un teatro perchè lo spettacolo è stato censurato. L'ambientazione è magnifica, sembra il '68 degli americani, una pre-rivoluzione (che non avverrà mai) che si svolge tutta nei luoghi chiusi, ma ferventi di entusiasmo artistico, del teatro, del Rockefeller Center, delle case in mogano dei capitalisti: Scenografia, costumi, musica, tutto rende molto bene una certa atmosfera dell'epoca.
La regia di Tim Robbins, che firma anche la sceneggiatura (il fratello, è tutto fatto in casa, è alle musiche), è esplicitamente teatrale e si avvale di numerosi piano sequenza di cui il più lungo, abbastanza bello, è quello iniziale che ci presenta tutti i personaggi. Il piano sequenza e montaggio sono metafora delle due ideologie: il primo è usato per mostrare le prove dello spettacolo "comunista" e le piccole storie dei suoi attori; il montaggio invece è destinato alle scene dei capitalisti-puttane. Più semplice di così si muore. La storia, l'allestimento della piece "Craddle will rock", è chiaramente un pretesto per Tim Robbins per poter lanciare una denuncia politico-sociale all'America dei nostri giorni (e il piano finale dove lo mettiamo?) e per riuscire nell'intento chiama a raccolta tutti gli attori che gli sono politicamente vicini sfondando quasi lo schermo con la realtà: dalla moglie a Bill Murray (e Jack Black!), ai fratelli Cusak. È politico però leggero, fluido e mai noioso. Qualche difettuccio per esempio nei dialoghi sempliciotti (troppo farciti di paroloni come "fascismo", "comunismo", "Lenin", "Sono Orson Welles", "censura", etc...) e nella scelta dell'attore che interpreta Orson Welles (scritturato probabilmente per il suo bravo gioco di sopracciglia) troppo gigioneggiante e caricaturale, ma del resto più fedele non si può fare (da confrontare con l'attore di RKO 281).

Simpatico film di scenografia. Sconsigliato a chi non vuol vedere l'arte "invischiata" di ideologia (comunista). Per un Robbins più impegnato meglio dare una visione di Embedded/Live, documentario presentato a Venezia61 nella rassegna Venezia Cinema Digitale-Eventi.
 
26.1.05
  Dogville
Il cane da guardia è l'unico abitante del luogo ad essere risparmiato dalla vendetta di Grace, anche i bambini vengono uccisi.

Geniale e sadico film di Lars von Trier. Geniale per aver scarnificato l'impalcatura di un film: dalla scenografia astratta, alla musica barocca e ossessiva, alla scansione temporale per capitoli e alla recitazione sofferta degli attori, passando per una storia esplicita nel messaggio così come nelle azioni. La bravura mostruosa della Kidman è affiancata da altrettante ottime interpretazioni degli altri attori e la caratterizzazione dei personaggi è perfetta e completa già dopo 10 minuti di film. Geniale perciò nella sua essenzialità estetica: basti pensare solo che l'intero film è stato girato con la steadycam (escludendo qualche establishing shot).
Cosa vuole dirci von Trier con questo suo Dogville? Ci sbatte in faccia il senso dell'arroganza, della fragilità dell'animo, della colpevolezza, del perdono in modo tale che ci serva da lezione, come la strage e la distruzione finale del paese serve per le altre città sotto il controllo dei gangster. von Trier che ci fa la morale? Qualcosa non mi convince, forse che la sua morale è proprio nell'essere immoralmente sadico? La bellezza (fredda) della Kidman gli serve per far apparire la sofferenza della schiavitù, che porta alla salvezza, ancora più sentita: come non si può restare ad occhi aperti sbarrati quando vediamo il collare stretto attorno al collo della Kidman per non permetterle di scappare? Sofferenza realmente fisica, che passa per lo sfruttamento del corpo, luogo ancor più visibile e scoperto dove gettare tutte le fragilità nascoste. È un grande film e un grande Lars von Trier.

Dogville è sicuramente il film giusto nel momento giusto, quanto Farenheit 9/11 lo è per altri motivi (l'uno vede l'America dall'interno, l'altro, lontasissimo, attraverso un set costruito in interni in Europa). La distanza tra von Trier e Tararantino è immensa, ma voglio un pò forzare la mano e avvicinare questo film a Kill Bill per la violenza sul corpo della protagonista (ci sono notevoli differenze, senza dubbio); invece è sicuramente molto più vicino a Kubrick di quanto si possa pensare. Ad iniziare dalla musica (ricorda molto Barry Lyndon) e dalla divisione in capitoli, ma anche per la canzone nei titoli di coda che può ricordare quella di Full Metal Jacket. Affinità e differenze tematiche e stilistiche con l'opera di Kubrick, ed in particolare con Barry Lyndon, sono state approfondite nell'interessante analisi di Mauro Caron su SegnoCinema #127.

Dogville lo metto vicino ai due The Kingdom come miglior film del danese, in attesa di vedere Dancer in the Dark (!).
In conclusione: è un capolavoro.
 
23.1.05
  La foresta dei pugnali volanti
Due Zhang Yimou in tre mesi! Sempre affascinanti i duelli volanti o voli duellanti. Non posso negare che mi esalto quando vedo due cinesi che volano mentre cercano di uccidersi, il tutto con grande maestria.


"Hero" e i "Pugnali volanti" sono due film alquanto diversi per intenzioni e per realizzazione, affiancarli per scrivere di quest'ultimo una recensione è il compito più facile e ingiusto, ma inevitabile. Zhang si butta sul genere wuxia omaggiandolo, lo resuscita nella sua forma originale e ci meraviglia, questa volta con la motivazione di raccontare una storia d'amore. Ecco quello che mi piace in questo film, come anche altri provenienti dall'Oriente: gli effetti non sono fini a se stessi, abbiamo una storia melodrammatica che si articola sullo sfondo di una guerra tra impero e ribelli. Ambientazione e melodramma si amalgamano così come tutti gli elementi che ne fanno parte in un meraviglioso etereo e poetico. Il film si esprime al meglio nelle coreografie e nei costumi, nonchè nella eccellente fotografia di Xiaoding Zhao, alla sua prima esperienza col cinema(!).



I personaggi sembrano essere volati via dalla superfice di un vaso di ceramica cinese: i tessuti e i disegni geometrico-simmetrici sono un abbaglio per gli occhi e anche gli ambienti in cui avviene la storia sono curatissimi nei minimi dettagli. La fotografia qui assume un diverso valore nell'articolazione dei cromatismi. Se in "Hero" si scaglionavano simbolicamente, ma anche un pò piattamente, i diversi colori della sfida e della menzogna, ne "I pugnali volanti" le sfumature di verde nella foresta di bambù o quello del blu nella scena iniziale sono concreti; c'è maggior e minor profondità tra i personaggi e l'ambiente in cui agiscono. L'astrattezza a cui mirava Hero qui è persa, la storia è più terrena: i sentimenti giocano un ruolo importante nella storia, non come in Hero dove le storie sovrastano le reali intenzioni. Il fascino visivo però non risparmia alcuni aspetti non proprio perfetti. La musica di Shigeru Umebayashi è tra gli elementi che difettano perchè troppo poco influente in alcune scene e il tema d'amore è una melodia che risulta pedante, forse perchè sembra avviarsi sulle note del main theme de Il Padrino (riascoltare per credere...). I dialoghi sono semplici e ingenui.

La scena iniziale è il fulcro dei giochi di identità che muovono tutta la vicenda: essa può forse risultare spiazzante per i suoi movimenti di macchina teatrali e per i dialoghi poco sentiti dai personaggi, ma rappresenta in un certo senso il meraviglioso del film grazie anche, e soprattutto, al "passo dell'eco danzante" dove Zhang Ziyi mostra tutta la sua bravura di ballerina. La sequenza nella foresta di bambù è la più spettacolare, un passo obbligato per il regista che vuole obbedire a tutti i canoni del genere wuxia. L'apparire dei guerrieri della Casa dei pugnali volanti ha, poi, una potenza visiva e mistica che ricorda molto quella degli elfi a Lothlorien ne "Il Signore degli Anelli".


Cosa dire degli attori che non sia già stato detto? In pochi mesi abbiamo visto la bellissima Zhang Ziyi in tre film ed in tutti dimostra le sue doti. Ci resta solo da auguraci che questo talento non venga sprecato in produzioni hollywoodiane troppo cinetiche e stereotipizzate ("Rush Hour 2" glielo concedo, ma in "Memorie di una gheisha" non deve tradirci). Di Takeshi Kaneshiro e Andy Lau vorrei vedere qualcosa di più.

Credo che nel film ci sia una citazione di DePalma: i pugnali volanti non assomigliano tanto a i coltelli in Carrie-lo sguardo di Satana? :-)

 
16.1.05
  L'ultimo samurai
ovvero: il Giappone nella versione soft raccontata dagli americani.
Tom Cruise ha partecipato attivamente allo sterminio dei pellerossa e adesso vive con spettacoli per un'azienda di fucili. Gli orrori della guerra lo perseguitano e così accetta di trasferirsi in Giappone per addestrare il nascente esercito per l'attacco ai samurai. Il personaggio all'inizio è l'antitesi di quello interpretato in "Nato il 4 Luglio", dove il protagonista, forte del suo coraggio acquisito in Vietnam, cercava di far valere il diritto dei reduci a non essere dimenticati. Tom Cruise in questi due film rappresenta e denuncia (qui di meno) il senso che l'America ha della guerra e il senso della sua missione democratico-espansionistica.


Non vorrei ripercorrere troppo la recensione di De Bernardinis su SegnoCinema #126, ma se si vede questa pellicola dal punto di vista ideologico, non posso non farne cenno. Il critico afferma che il film incarna l'anima dell'America, un Paese senza storia che si impegna a intervenire in quella di altri popoli per avviarla sul cammino del cambiamento (democrazia). Fin qui ci siamo. Il protagonista (un simil Lawrence d'Arabia) inizialmente indifferente alla cultura dei samurai, ne apprende i segreti e il profondo significato della tradizione; allo stesso tempo mette in luce la distruzione di una modernità troppo schiacciante e troppo veloce. C'è uno scontro di valori che non prevede una convivenza o almeno un reciproco avvicinamento dei due: Tom Cruise, sintesi e consapevolezza distaccata, riuscirà ad avvicinarle. Tradizione, modernità, cambiamento.

Oltre questo messaggio simil-ideologico il film però contrappone i due valori con una tale semplicità da risultare stilizzato. Ci sono i resistenti samurai, il virus americano e i corrotti giapponesi, tutto molto limpido. "L'ultimo samurai" non è "L'ultimo dei Mohicani", ma nemmeno un grande film sulla katana. Il suo valore viene annacquato per chi di cultura orientale ne sente parlare superficialmente: si iniettano nello spettatore sintesi estreme di filosofia guerriera e lo si avvicina a quel mondo, in questo caso efficacemente, in alcuni casi senza il filtro del doppiaggio.
Il film apprende i canoni del genere epico ma non li sostanzia in modo che se ne senta davvero il carico emotivo delle grandi storie. Metà della pellicola è dominata dalla presenza di Tom Cruise mai così narcisista nei suoi film recenti (più fastidioso che in M:I2): sarà forse che ne è anche produttore, anzi regista indiretto. Sarà anche diventato più bravo da Eyes Wide Shut a seguire, ma le sue possibilità espressive restano limitate, e non basta far crescere i capelli per creare un grande guerriero, pur sempre con la faccia troppo pulita. Non solo Tom Cruise, anche l'attore Wntanabe, di cui si è tanto decantata l'interpretazione, in fin dei conti non offre grandissime emozioni: il suo volto è troppo occidentale, e non solo.
Le scene di guerra non hanno pathos: viene mostrato troppo del campo di battaglia, non è uno scontro sporco nè con urla di coraggio (non è Braveheart, ma almeno tentare di avvicinarsi!). Inoltre i soldati dell'esercito giapponese sono troppo ridicoli per sembrare valorosi, troppa paura nei loro occhi insomma. Ma l'aspetto più ridicolo è che i samurai vanno a difendere la loro sopravvivenza e fedeltà al passato, e pare che l'ultimo arrivato sia più importante di tutti coloro che andranno a morire armati di una sola spada contro molti proiettili. Assurdo.
La cultura giapponese purtroppo viene americanizzata in ogni sequenza, anche quella del pranzo che non differisce affatto da una ambientata in America: ci manca solo che il bambino scappi dalla tavola per andare a vedere la tv! Del Giappone c'è solo l'ambientazione, il resto, dalla costruzione dei personaggi al procedere narrativo, non differisce affatto da uno realizzato dalle nostre parti. La fotografia potrebbe essere tra gli elementi che più si salvano, perchè non pretenziosa e non sciatta, ma anch'essa non fa il minimo sforzo per andare oltre i molti controluce e tonalità da new age all'interno delle abitazioni. La musica di Hans Zimmer vuole prendere spunto da quella de "Il Gladiatore" (da cui il compositore, sono sicuro, non si allontanerà mai) ma finisce per farci preferire il silenzio al suo commento musicale.

La virtù del samurai, l'uso della katana, il destino, i rituali che tendono alla perfezione dei gesti, tutto viene diluito per essere conosciuto dallo spettatore vuoto, o quasi, di ogni conoscenza sull'Oriente. In una parola: ambientazione esotica, motivo principale per cui "L'ultimo samurai" ha riscosso tanto successo. A suo favore però c'è da sottolineare che risulta coeso, mai veramente noioso, un buon prodotto soprattuto perchè riesce a raccontare una tale storia velocemente e senza sbavare. Però si sa che i prodotti americani al minimo sanno essere perfetti solo per questo aspetto. Il film è stato pensato per far soldi, ovvio, ma a me questo non interessa.

 
2.1.05
  [RW] Matrix Reloaded
Il tempo gioca a suo favore. Reloaded, con la visione su Sky di ieri sera, ha acquistato in divertimento e noia, minore rispetto ad un anno fa perchè quella televisiva non è una visione obbligata (nonostante il buio della stanza fosse doveroso). Minor noia, ma maggior banalità nei dialoghi e maggior piattezza dei personaggi, Morpheus su tutti. I due Fratelli hanno solo voluto dimostrare che a distanza di 3 anni sanno superare se stessi.
Il film procede per nette separazioni di scene verbose e sonoramente tranquille e scene muscolose e ipercinetiche dal suono rumoroso. I due Wachoski hanno così confezionato un sequel che è la summa della negazione di un progetto che non avrebbe dovuto svilupparsi e della propria parodia: uno spreco di soldi. Certo è che i due sequel ambiscono non solo al livello della effettistica ma anche (e qui c'è da ridere) a quello del contenuto. Sono presuntuosi e saccenti. Tendono ad approfittare della sorte infarcendo i due film con tutto il loro scibile pop senza badare a costruire un barlume di discorso chiaro e lineare. Matrix è un tentativo in chiave "cyberpunk" di costruire una Teoria filosofico-esistenziale del Tutto: creazione, creatore e creato, controllo, funzionalità e finalità dell'esistenza, domande tante, risposte confuse. È pur vero che questa seconda visione è stata meno difficoltosa della prima (mi auguro a questo punto che sia così anche per la seconda di Donnie Darko...!), ma non per questo gli si può perdonare la ridicola caratterizzazione dei personaggi. Ambienti di gioco in cui si sfidano con riserve di energia infinite i due o i multipli rivali Neo e Smith tanto che un sequel non basta: il loro "epico" duello dovrà per forza di cose protrarsi nel lungo finale del terzo film dove se ne daranno di così santa ragione che sia loro che noi capiremo quanto quei pugni (e tutto il film) non abbiano più significato, ormai.
Del primo mancano tanti elementi innovativi, anche il "verde matrix" perde di importanza sia quello dell'ormai famoso codice e sia quello della luce nel mondo virtuale. Strano a dirsi ma di Reloaded posso salvare solo tre cose: il Merovingio e il Fabbricante di chiavi (geniale creazione Wachoskiana, troppo ingiustamente rovinata da motivi di sceneggiatura [!] ); ma anche lo scontro stratosferico e mai visto prima (davvero da rimanere a bocca aperta, almeno durante la visione cinematografica) dei due tir al termine della sequenza dell'autostrada. Ah, forse un 4rto elemento: un ambiente insolito e davvero poco sfruttato, quello della "torre di controllo" bianchissima che da il benvenuto all'overcraft di Morpheus.
Ogni film è degno di essere visto totalmente fino ai titoli di coda, anche quando non ci convince affatto. Per me Reloaded al cinema fu una sfida di sopportazione: la prima mezz'ora mi disgustò così tanto che ero seriamente intenzionato ad uscire dalla sala, ciò non avvenne e rimasi fino al termine (per la prima volta!) dei titoli di coda, ma solo perchè avrei visto il trailer di Revolutions (tutti si chiedevano se l'avremmo davvero visto o meno giacchè le maschere erano già in sala con le loro scope)...
Nel caso di Reloaded, forse, il "what if..." viene spontaneo. Potremmo per esempio pensare cosa sarebbe successo se Morpheus fosse diventato un agente Smith oppure se... (ma devo pensarci meglio). Il giochetto mi riuscì meglio con Revolutions, tanto che durante la visione riuscii ad immaginarmi una versione totalmente alternativa e molto più interessante di quella che stavo vedendo.
L'immagine concettuale (o simbolica, chiamiamola così) del film è forse quella iniziale dei titoli di testa in cui vediamo il codice trasformarsi in qualcosa di 3d per poi capire che si tratta di un ingranaggio, quello di un orologio. Purtroppo nella saga non si parla di temporalità (se non quella filmica del flash-forward onirico), ma di meccanismi, di controllo, cioè del funzionamento, del come ed è in questo che l'inizio riesce bene a rappresentare il film.

 
portate un cucchiaio

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Località: Napoli, Italy
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