videobrodaglia
21.5.05
  Kezich su "Revenge"
[...] In attesa di conferme da critica e botteghino, mi sentirei di dire che questo episodio è il migliore della serie. Inizia, per la verità, con una vera e propria "battaglia del cielo", una sequenza di guerra astronautica rimbombante e frenetica, da sconsigliare ai deboli di stomaco. Se ne ricava il sospetto che tutto il film si risolverà in una ridda di esplosioni ed effetti speciali, ma per fortuna non è così. Ben presto il racconto si concentra sulla storia di un'amicizia che si trasforma in odio, quando Anakin Skywalker, un ambiguo Hayden Christensen, scivola sulla china del male e diventa l'implacabile avversario del nobile Obi-Wan Kenobi, l'altrettanto efficace Ewan McGregor. Il loro duello finale (che finale non sarà, vedi i precedenti film della serie) si svolge nell'allucinante cornice di un pianeta ribollente di lava. La sensazione è che l'intero ciclo di Star Wars non è un puro fenomeno di tecnologia applicata al cinema, ma una favola nera intinta di pessimismo sul piano individuale (l'eroe che diventa il vilain) e apocalittico. Di fronte alla civiltà supermoderna, collocata "tanto tempo fa" e ahimè scomparsa, George Lucas ci insinua un inquietante dubbio leopardiano sulle "magnifiche sorti e progressive" del mondo in cui viviamo.


da Corriere della Sera di lunedì 16 maggio 2005
 
  Star Wars - Episode III - Revenge of the Sith




Lacrime e delirio.
 
10.5.05
  Mystic River


E allora Jimmy, quand'è che hai visto l'ultima volta Dave?
 
7.5.05
  Kingdom of Heaven
Ridley Scott pare aver saputo accantonare un invadente tentativo di sfornare un troppo simil Gladiatore: in parte il film concretizza quello per cui Maximus è morto, e per un altro verso rinuncia saggiamente ad assumere una rigida opinione sugli eventi della storia, mettendo su una pellicola in più parti complementare al successo del 2001. Forse per questo motivo la più che apparente infedeltà del regista al materiale storico ha generato reazioni diffidenti nei confronti del film; Scott ha rinunciato a solide basi storiografiche per costruire una riflessione meta-storica.
Sembra un paradosso, eppure è così. È un film politico (...).
L'intenzione di Scott però è delle migliori, perchè onesta: la storia del maniscalco non fa che introdurci di soppiatto all' interno di meccanismi della Storia che si ripetono non solo da millenni, ma anche dalle generzioni più prossime.

Ma dalla sala si esce con un certo amaro in bocca per diversi motivi. Dei 145', un'ora e mezza precisi sono di una noia che non mi aspettavo. Si inizia come anche un b-movie saprebbe fare, proseguendo a rilento (a suon di convenzioni del genere e di tentativi di costruzione dei personaggi) al suo punto di svolta, quando il Re di Gerusalemme muore e lascia un vuoto contestuale che viene colmato con una più convincente progressione narrativa nell'avvicinamento dei due opposti eserciti. Nel complesso la fotografia e il dialoghi toccano il superfluo ripiegandosi in infiniti barocchismi che alla lunga danno l'impressione di essere tra i pochi elementi capaci, loro e nostro malgrado, di sostenere questo film.
Sempre della prima parte, ci sarebbe da denunciare l'incapacità della regia nelle scene di semplici duelli come in quelle di battaglia. Negli ultimi tre quarti d'ora, bene o male, qualche piccola trovata per destare interesse possiamo trovarla: se non altro il protagonista, sempre di poche parole, dimostra di essere un buon stratega, nonostante non si capisca dove abbia appreso tali conoscenze, essendo solo un maniscalco (forse le ha ereditate?). Riguardo al cast e ai relativi personaggi, mi dispiace dover notare che Orlando Bloom questa volta non è affatto riuscito a convincere: lavora di volto, come un buon e ancora poco maturo Tom Cruise. Del resto il suo personaggio viene prelevato e rimesso al suo posto, nel paese in cui vive, con tale facilità da non dare fastidio a nessuno, anzi fa tutto il possibile per contribuire alla progressione degli eventi con la sua rettitudine, e solo quando si accorge che nessuno ha gradito realmente, inizia ad essere davvero saggio.
Ritornando agli attori, Edward Norton proprio perchè irriconoscibile è sicuramente l'unico a meritare un certo giudizio positivo: peccato lo si veda solo nella parte scarsa del film. Irons meglio nel Mercante di Venezia; Eva Green sempre più bella e volendo anche bravina a ogni scena. La colonna sonora di Gregson-Williams è meglio non toccarla altrimenti rischia di nascondersi ancora di più.
Ma cosa rimane dell'aspetto politico del film (quello preponderante)? Non mi sento di distruggerlo totalmente. Ridley Scott vede nella Storia un solo piccolo (ma immenso) fattore di eterna contesa: il simbolo. Gerarchie, bandiere, luoghi di culto, territori, non sono che assurdi e illogici (per chi si professa credente) tentativi di rendere comprensibile l'Assoluto. Ma Scott realizza un film per il largo consumo e non credo che sarebbe capace di approfondire con coraggio quest'aspetto.

Nel complesso Kingdom of Heaven (peccato aver perso il titolo originale!) è un prodotto di buona fattura che vale la pena di vedere, ma solo a costo di entrare in sala a film già iniziato.
 
5.5.05
  Cul de sac
Terzo lungometraggio di Roman Polanski datato 1966, "Cul de sac" (curioso titolo) riprende la stessa struttura de "Il coltello nell'acqua": unità aristoteliche di spazio e tempo e tre personaggi isolati in un castello costretti dagli eventi a tirar fuori il meglio e il peggio di sè.
La pellicola è fortemente ironica, ad iniziare dalla prima sequenza. Su una lunghissima strada deserta, di cui si avverte il vento incessante (non abbandonerà mai il film), vediamo avvicinarsi lentamente una macchina con due rapinatori: un tizio col braccio fasciato spinge l'auto e un altro, ferito, non riesce a controllare il volante. Lunga strada dritta, assenza di suoni, una rigorosa e meravigliosa fotografia in bianco e nero e due tipi abbastanza loschi ma con un curioso senso dell'umorismo, colpiscono subito. L'uomo col braccio fasciato cerca un telefono da qualche parte seguendo i pali della luce, troverà un castello e due buffi coniugi che riuscirà a piegare alle sue volontà senza grandi sforzi. Dimenticavo: il castello e i tre personaggi (il tipo in macchina morirà) resteranno isolati dall'alta marea che circonda la piccola collina.
Cul de sac (= vicolo cieco) è una storia dai tempi dilatati realisticamente assurda, folle quasi allucinata. Gli attori sono abbastanza bravi, riescono a dar vita a personaggi molto buffi, ma il film non regge i tempi troppo lenti. Umorismo, fotografia, campi lunghi e una buona sceneggiatura, in compenso, si salvano.

Un'analisi oltre le prime impressioni:
La repulsione e il fascino dell'ambiente quotidiano, l'impossibilità di fuggire e la nevrosi soffocante indotta da questa contraddizione, il disfacimento della vita nel continuo protrarsi e acuirsi di questa nevrosi, impregnano anche Cul de Sac (1966), altra ripresa del triangolo amoroso, ma questa volta nell'ottica di un humour nero molto britannico. L'elemento di disturbo del triangolo è questa volta un personaggio comico che, come il giullare del "Re Lear", funge da coscienza del castellano, smascherando la sua angoscia e la sua solitudine, evidentemente acuiti dalla perdita della moglie e vanamente lenite dall'assunzione di un'amante. In quell'isola l'uomo si rende conto della meschinità di tutti coloro che gli stanno attorno, egoisti, crudeli e ingrati (per repulsione dei quali si è d'altronde segregato nel castello).
 
4.5.05
  Il Cacciatore
John Cazale morì di cancro alle ossa subito dopo la fine delle riprese di The Deer Hunter, a 43 anni e 6 film: l'esordio in The American way, i due Padrino, La Conversazione e Quel pomeriggio di un giorno da cani. Personaggi umili, deboli, nonostante le drammatiche storie in cui erano coinvolti, ma forti e ben rappresentativi di una sofferenza sentita sulla propria pelle (più che nel bene, nel male) e proprio per questo di una forza implosa.
Il Cacciatore è un film sulla perdita della forza, quella proveniente dalla condivisione di un ideale, quella di un gruppo di amici uniti da un'innocente caccia ai cervi e da un modesto lavoro in un'acciaieria. Il film si distende nelle sue tre ore (mai lunghe) tra valori, consapevolezze e prove di coraggio, strettoie in cui la vita e la morte sono appese al gioco di un solo preciso colpo. L'etica della precisione è il principio di vita e l'unica sicurezza di Mike-Robert DeNiro, il solo in grado di guardare nello specchio, calarsi nelle atrocità delle probabilità con una sola arma e ritornare maledettamente sui suoi passi, senza poter ritrovare e restituire a sè e agli amici il loro passato.
Il matrimonio, la caccia, il gioco della roulette russa in cui è compresso tutto il Vietnam, il disordinato ritorno degli amici a casa e l'amaro vuoto e la solitudine finale sono le tappe che portano alla sconfitta per l'assenza di una vera moralità e per la difficile sopravvivenza dell'unico valore condivisibile: l'amicizia. Nemmeno l'amore trova posto nell'affresco dello spirito americano: relazioni appena abbozzate o solo furtive, un matrimonio che ha sùbito il sapore del tradimento.

Michael Cimino prende la guerra del Vietnam per rappresentare un passaggio che non è un viaggio, non è un sogno e nemmeno un incubo. È una pena che si deve scontare in qualsiasi momento, forse un monito alle eccessive e immature convinzioni del popolo americano ed anche un segno di quel cambiamento violento ed epocale perchè non ne sono i fautori.

La lunga ma bellissima sequenza del matrimonio ci immerge in un' atmosfera priva di preoccupazioni, dove si allontanano tutte le ansie e le paure per una partenza forse senza ritorno. È una sequenza che considero precisa nella sua durata perchè inneggia e scolpisce un momento che si vive senza alcun segno di ciò che avverrà; tale è la sua potenza ed efficacia che pare auto-escludersi da tutto il resto, elevandosi quasi ad un episodio mitico che non si può pensare di riprodurre. Sulla montagna il gruppo di amici si mostra in tutta la sua spensieratezza, ma, a differenza che nel matrimonio, qui la vera essenza dei rapporti emerge meglio: l'episodio degli stivali mette in luce le due contrapposte personalità del debole Stan e del maniaco idealista Mike, come anche una ulteriore conferma della maggiore intesa tra Mike e Nick. Essi sono gli unici due che capiscono e danno senso allo sparo di un proiettile, che sia un cervo o il loro cervello ad essere centrato. Si ritroveranno maledettamente insieme quando dovranno sottoporsi a una scommessa sulla loro vita.
Tutto il grandioso film di Cimino si articola e si sorrege sulle due complementari metafore della caccia al cervo e della roulette russa, come per dirci che non c'è alcuna differenza tra i due obiettivi e che l'unica sofferenza con cui dobbiamo fare i conti è quella del ritorno consapevole alla natura come valore supremo, unico confronto possibile senza vincitori nè vinti.
 
2.5.05
  Nemico Pubblico
Basterebbe solo commentare la didascalia di chiusura, per parlare del gangster movie nella golden age, del contesto storico in cui venivano realizzati, della loro influenza sul pubblico e di tanti altri aspetti.
Nemico pubblico si chiude con la scena più drammatica del film: Tom è stato rapito in ospedale dove stava passando gli ultimi giorni di degenza, ma il suo capo avverte il fratello che farà di tutto per riportarlo a casa. In cambio però dovrà sparire dalla circolazione. La madre, alla notizia, ovviamente scoppia di felicità e inizia a preparare il letto per accoglierlo. Una musica in che poi diventa d'ambiente, unisce i due luoghi dell’attesa: la camera da letto con la madre, l’ingresso di casa dove il fratello attende nervosamente. Bussano alla porta; il fratello corre verso di essa; inquadratura frontale; musica; apre la porta e piano americano del cadavere di Tom che dopo due secondi cadrà (angolazione fortemente dal basso) sul pavimento di casa; stacco sulla madre intenta a preparare il letto; sguardo del fratello chino sul cadavere, incazzatissimo, ma non cova vendetta; si alza e cammina verso la macchina da presa. Fine con didascalia: questo non è un uomo, non è un personaggio, è un problema che noi SOCIETÁ dobbiamo risolvere! Più chiaro di così si muore: trionfa la giustizia, affidata al giudizio degli spettatori, e trionfa anche l'amicizia alla quale il film inneggia in modo particolare.
Senza mezzi termini, Nemico pubblico è un film da mettere immediatamente vicino a tanti altri film del genere più recenti e più influenti sui nostri gusti. Servirebbe insomma una vera operazione di rispolvero di certe pellicole, non dimenticate, ma solo studiate per la loro appartenenza a un genere storico.
Il protagonista è interpretato dal volto mitico di James Cagney. Non c’è niente da fare, quest’attore sfonda lo schermo per la sua espressività immortale, a dispetto di un datato Bogart. Anche i comprimari non sono da meno, tutte facce che appartengono da sempre al mito dei gangster.
Ma andiamo con ordine. Del film andrebbero citate tutte le sequenze, ma per non esagerare con l’euforia da post-visione posso ricordarne tre: quella nel bar quando i due soci conoscono il loro nuovo capo, ma anche quando i due entrano tutti agghindati nel locale dove sedurranno le prime due donne annoiate. La più bella è però quella classica della vendetta sotto la pioggia quando Cagney attende che le sue vittime entrino nel locale da dove subito dopo ne uscirà gravemente ferito, bagnato e sanguinante e con una sola frase: “Ero un duro”. Anche gli attori che interpretano i due amici da ragazzi sono perfetti nei ruoli. Il gesto più memorabile di Cagney è cmq quel pugno di intesa che lui rivolge al suo amico come anche a sua madre per rassicurarla. Altre due piccole osservazioni: il fratello Mike ritornato dalla guerra con ancora addosso la divisa ricorda, sia nell’espressione che nella pettinatura, il ben più famoso Michael de Il Padrino.
 
  Il coltello nell'acqua
In una qualsiasi domenica d'agosto la tensione prende corpo nel gioco perverso di due uomini, nello scontro delle loro personalità, in apparenza opposte, a bordo di una barca in alto mare.
La storia si articola e cammina su un gioco precario di forze opposte e a somma zero che tracciano una tensione quasi sempre palpabile, galleggiante sull'acqua, mai scoposta e squilibrata. Il bianco e nero azzera totalmente i magnifici colori di una giornata di sole in alto mare, restituendo un senso inquietante e primordiale di contrasto che proviene dall'ambiguità di ciò che accoglie e ciò che è accolto.


Il coltello nell'acqua è la sintesi di tutto ciò che possiamo riunire sotto la definizione di thriller degli istinti: la carica (omo)erotica e il pericolo sempre affacciato sulla sua rottura, il gioco infantile della sfida fine a se stessa. Per quasi tutta la durata del film pare che la donna non abbia alcun ruolo rilevante nella storia, eppure è proprio lei che muove tacitamente i fili delle pulsioni. Rimane in silenzio senza intervenire concretamente su ciò che avviene a bordo della barca tra i due uomini; solo alla fine saprà giocare la sua carta con un atteggiamento quasi mostruoso elevandosi al di sopra delle finalità maschili. Il giovane è un pò il depositario del comportamento istintivo del cacciatore (una animale di terra, eretto, evoluto), mentre l'adulto nella sua arroganza e supponenza è il depositario di paure ancestrali, del primitivo, un animale d'acqua, l'uomo delle palafitte che si erge quel tanto per non annegare, restando nella suo falso movimento, nella staticità antropologica. Il primo sa usare la parola come uno strumento di difesa (finge) e ha capacità di adattamento; il secondo è incolto (nonostante sia un giornalista) e attacca con le parole per non difendersi. La donna è invece il nuovo animale, un anello di congiunzione, ma anche una mutante.
Questo primo film di Roman Polanski del '62 si fa apprezzare per l'abilità dei movimenti di macchina sulla barca e nell'acqua: primissimi piani e profondità di campo inquietanti si uniscono ad un uso umido e asciutto della luce e di suoni che bucano lo schermo. Polanski però non riesce a sostenere la tensione per tutto il film. Ci si annoia un pò quando i tre giocano a shangai all'interno della barca: una sequenza troppo lunga.

Il coltello nell'acqua è un film astratto, essenziale (forse minimalista o modernista), è il gioco del coltello e della mano, della tensione latente e dell'ambiguità.
 
  Stardust Memories
Woody Allen tenta tutte le combinazioni possibili tra sè e le donne, tra i suoi tormentati pensieri e il mondo della cultura. Questa volta sceglie di porre uno specchio davanti ai suoi ricordi, cioè cinema e donne, e analizzarli, scorazzarci dentro fino all'apologia più (auto)corrosiva, fino alla critica più seduta che ci si potesse aspettare da lui, quella nella sala cinematografica durante e dopo la proiezione. Siamo sicuri che il regista newyorkese sia sinceramente disposto a dare tutte le risposte alle menti tanto plagiate dai suoi film? Nel film il regista si fa ala Marzullo una domanda e si dà una risposta, forse per prevenire solo quelle che gli spettatori si pongono durante la vera visione del vero film; sarà pure così, ma ci ritroviamo sempre ad aggiornare la lista delle sue battute fulminanti.
Il titolo non è niente male: Stardust Memories. Lo Stardust è un Hotel dove và a far abitare temporaneamente (il tempo di girare alcune scene del suo film) i suoi ricordi. Una donna lo raggiunge, un'altra la ruba al suo compagno, un'altra ancora la seduce fino a farla separare dal marito. Lui è un regista a cui vorrebbero rimontare il film per richiamare un pubblico più vasto, ma egli è già un artista di successo: i fan lo accerchiano e lo fermano per strada per un autografo e una donna si lascia addirittura scopare, con il beneplacito del marito, e tante altre lo considerano molto sexy. Eh si, è un film e Allen non si lascia sfuggire l'occasione per sguazzarci dentro!
L'ebreo newyorkese non fa altro che parlare di sè, ma con stile (parodistico e non) e intelligenza, in un eccellente bianco e nero (nemmeno l'ultimo), e con diverse scene memorabili. Su tutte quelle nella sala cinematografica dopo la proiezione o quella dell'incontro con gli alieni (che sanno già tutto di lui e non vogliono rispondere alle domande poste in modo sbagliato), ma anche quelle brevissime che rappresentano il suo inconscio d'artista (l'evasione della sua ira...). Prima del grandioso e certosino Zelig, Allen dimostra di saper usare con genialità due figure linguistiche: il fuori campo e la soggettiva. Ma oltre un pugno di battute, una fotografia bellissima e altri piccoli particolari, cosa rimane? Resta lui. Questo film potrei definirlo come più di un'apologia, un testamento artistico e, volendo, anche umano prima che arrivi il momento in cui non avrà più niente da dire.

La verità è che Woody Allen è unico. Non bisognerebbe prenderlo e criticarlo come si fa con tutti gli altri. Se dovessi pensare ad un'immagine che rappresenti il suo cinema, prenderei forse quella vista nella sequenza iniziale di Provaci ancora, Sam: lui esce dal cinema e inizia a lamentarsi dell'impossibilità di vivere ed essere come il protagonista di Casablanca. Lui e il suo cinema sono come un qualsiasi spettatore che smonta se stesso, gli altri che hanno visto il film e la sua critica al film stesso.
Si, più o meno questa è l'immagine che ho di lui :-)
 
1.5.05
  Il genio della truffa
Mancano pochi giorni per l'uscita mondiale del nuovo film di Ridley Scott "Kingdom of Heaven" (s)tradotto da noi con uno sciapo "Le crociate" e non so cosa aspettarmi. Aprirà la stagione dei grandi kolossal hollywoodiani ma soprattutto si metterà inevitabilmente a confronto col precedente Gladiator e con tutti gli altri storici (biopic e non) sfornati negli ultimi 24 mesi. Scott ormai si diverte con storici, sequel e war games e talvolta (cioè da 12 anni) anche con storie modeste, come questa con Nicholas Cage in Matchstick men. Letteralmente significa "uomini fiammifero spento" (!) ma il Ragazzini mi viene in soccorso e scrive che sta per "uomo disegnato a tratti essenziali". A ben vedere il personaggio di Cage è un pò fumettistico, ma non so se questa fosse davvero l'intenzione di Scott; fatto sta che è un fobico della polvere, un ossessivo compulsivo che non riesce a frenare il suo tic all'occhio sinistro e non riesce a non tenere in un ordine perfetto la sua casa. L'interpretazione di Cage non è male, ci si accorge della sua preparazione (si è calato...) anche se è il film che si presenta un pò frazionato. La storia è prettamente americana: la colonna sonora sempre presente fonde e quasi accavalla canzoni dei gloriosi 50s/60s, l'ingenuità della gente che abbocca alle truffe, alcune macchine in stile d'epoca... A tratti sembra davvero che in epoca di inganni globali Scott abbia voluto fare il suo Prova a prendermi, e in effetti i due protagonisti non sono molto dissimili sotto alcuni punti di vista. Il film è tratto da un recente libro di Eric Garcia del 2001 "La carogna": pare che sia ben scritto e che il personaggio di Cage corrisponda a quello del libro, però forse la sceneggiatura ha un pò tolto l'unità del racconto. Durante la visione sono visibili quelle tracce che dovrebbero rimanere innoque per tutta la sua durata. La truffa di Frank ai danni del compagno viene svelata subito quando si vuol far credere che lo psicanalista stia chiamando la moglie di Cage, moglie che in tutto questo non vediamo mai nè sappiamo davvero niente. Dicevo un pò frazionato. Si perchè se all'inizio vediamo i due soci al lavoro e i segni di ossessione del protagonista, in una seconda parte troviamo l'arrivo della figlia e poi una terza e finale parte dove tutti i nodi verrebbero al pettine. Se Scott avesse messo dei cartelli prima di ogni parte avrebbe fatto un lavoro anche più onesto. Ma non è questo il punto. Il film riesce perchè non è pretenzioso è solo modesto, però vuole essere una commedia mista a crime movie. Pare salvarsi il lavoro sul montaggio nervoso di Dern (lo stesso di Memento e Insomnia) e la fotografia "patinata" di Mathieson, la colonna sonora se ne cade perchè troppo invadente. Il giudizio finale sfiora la sufficienza, perchè non ci si aspetta più un film del genere da Scott... o forse sarebbe meglio ormai aspettarseli tutti così? :-S Cattiveria a parte, il titolo mi ritorna in mente: il suo significato può essermi chiaro. L'uomo disegnato nei suoi tratti essenziali è quello costruito e ingannato dal truffatore, in questo caso è lo stesso protagonista, poco carnefice e molto vittima. Più che vagamente ironico e comico è inquietante se si riascolta la frase che Cage dice alla figlia: " Spesso freghiamo gente che non se lo merita". Ma che ruolo interpretiamo?

Quelli di offscreen stravedono come sempre. Per Il genio della truffa parlano di una prospettiva reale di vita: un uomo che dopo 15 anni ricomincia ad esistere e a vedere finalmente il proprio sogno. In questa lettura positiva del film pare esserci una fedele descrizione del personaggio Cage. Avessero almeno scritto ciò che invece non và e che non ha convinto i più...
 
portate un cucchiaio

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