videobrodaglia
26.3.05
  Al cuore si comanda
L'ultima volta che ho visto un film per il solo fatto di aver girato su un altro canale, è stato diverso tempo fa con un film di Frankenheimer "E il vento disperse la nebbia": qualcosa di inutile, due ore perse, se ci penso...
Per questo film del figlio di Morricone è stato diverso. Dopo aver fatto un giro tra i commenti sul web ho capito che molti non l'hanno accettato per quello che è: una commedia romantico-"brillante" in stile americano. Il problema è sempre lo stesso. Se a fare un film del genere è un inglese o un americano, tutto bene, sarà anche brutto ma in qualche modo può piacerci. Se lo fa un italiano, è irrimediabilmente brutto. In sintesi. La storia è quella ingenua di una donna di trent'anni (la Gerini) che ancora non ha trovato il fidanzato giusto e che per caso decide di affittare un uomo, un trombettista disperato (Favino), spacciandolo per il suo ragazzo. Si lasceranno quando lei avrà trovato in un ricco dentista un uomo migliore, ma poi si riprenderanno come d'obbligo per queste storie. La regia fa pensare a una destinazione più televisiva che cinematografica e nel complesso il film ha alcune cadute di tono, nonostante la materia sia semplice da narrare. Ciò che però risalta su tutto il resto è l'intepretazione della Gerini, davvero bella e brava, di Favino, bravo anche lui e della Impacciatore, carina ed in parte.

Ritmo quasi sempre veloce, recitazione azzeccata. Un film leggero da bere in un sorso. Piacevole. Non capisco perciò come si possano stroncare anche le intepretazioni di questi tre attori. Il segreto sta nel vederlo come un film non italiano. Volendo si può ritrovare anche un richiamo a "Sex and the city", nel gruppo di amiche che spettegolano sugli uomini... Insomma un prodotto italiano come dovrebbero essercene di più e migliori, se vogliamo un vero star system e un cinema che sia anche industria: gli attori se sono capaci di interpretare certi ruoli lo saranno anche per questi. I dialoghi sono simpatici e la Gerini merita davvero un personaggio simile ma scritto meglio, sono sicuro che potrebbe sfondare in qualche modo.

Mi sono dilungato forse un pò troppo, ma il film è un pretesto per poter criticare chi ritiene che questi tipi di film vanno disprezzati senza pensarci troppo. Noi importiamo da sempre commediole del genere (anche se migliori): perchè non pensare che potremmo fare altrettento noi? Qui manca la letteratura che fa da ispirazione a storie come quella di Bridget Jones, però almeno si tenta di realizzare prodotti simili, quando manca anche una produzione di serial e telefilm. Ecco tutto.
 
  Le avventure acquatiche di Steve Zissou
Molto intellettuale dandy pseudo-fighetto. The Life Aquatic ha una messa in scena molto più personale de "I Tenenbaum", ma meno convincente in alcuni punti: viene facile far notare al regista un manierismo troppo marcato, un amore per il dettaglio troppo evidente però appare tutto così carino-caruccio che quasi si arretra di un passo e si finge di aver capito male (come Dafoe nel film, forse?). Anderson è uno che veste letteralmente i suoi film con tutine e/o cappellini in serie, ti mostra anche il manichino che sorregge tutta l'impalcatura come per stupirti delle cuciture (la nave è un set), i colori sono accesi e ben coordinati, una colonna sonora simpatica e molto azzeccata. Tutto seducentemente e ironicamente cult, ma non è cult! (forse lo diventerà...)
L'impressione è quella che tutto il film sia un disegno realizzato da un ragazzino sulla parete di casa sua. Esattamente un ragazzino, Wes non si fa alcun problema nel mostrarci il fanciullino che è in lui, anzi ci dice apertamente che è un ragazzino di 36 anni, trascurato dai genitori, che crea e gioca col suo mondo fatto in casa. Bizzarri e un pò imbronciati i personaggi di questi due film si spingono verso un riconoscimento esistenziale, nella famiglia-società, delle capacità di adattamento e di successo, con scarsi risultati. E così il fallimento diventa ironia e le responsabilità lasciano il posto all'immaturità, mai così divertente.
Wes Anderson qui espone nella migliore delle intenzioni la sua marca di autore postmoderno. Nel cinema postmoderno di ultima generazione tutto diventa ancora di più gioco e questo film non fa assolutamente eccezione. I dialoghi sono apprezzabili in diverse situazioni, ma la costruzione e lo sviluppo dei personaggi non è costante per tutti. È una commedia in fondo amara molto originale e visionaria, però resta un gioco che avrebbe potuto credere di più in se stesso. Anderson cerca e riesce nello stupirci con immagini che costruiscono un'avventura senza bussola però l'attenzione e la carucceria snaturano l'essenza di metà dei momenti comici. Con ciò non voglio dire che non sia un film riuscito e consigliabile, ma che avrebbe richiesto una cura nella sceneggiatura al pari di quella de "I Tenenbaum".
"Le avventure acquatiche..." è stato fin troppo sottovalutato in Italia (forse anche all'estero, non so) tanto che nella mia città è rimasto per poco tempo e in una sola sala. Poca visibilità per un regista che è venuto qui da noi a girare il film, che si apre con la conferenza nel Teatro San Carlo e si appoggia ai teatri di posa di Cinecittà, e che non rifiuta un accostamento con la visionarietà felliniana. Ma non solo: poca visibilità per Anderson, regista che si sta facendo strada per essere posizionato al fianco di Tim Burton.
Al quarto film Anderson non sembra aver perso, come invece altri, la sua impronta bizzarra: è un buon segno, però credo che il prossimo dovrà per forza di cose discostarsi dagli ultimi due e narrare una storia diversamente visionaria, altrimenti rischia di diventar noioso.


 
23.3.05
  Ferro 3 - La casa vuota


Kim Ki-duk ha appena vinto a Venezia 61 il premio per la miglior regia per questo film presentato a sorpresa e subito definito da molti come il colpo di fulmine dell'ultima edizione della Mostra: è un occhio che saluta, è una mano che vede o, ancora meglio, il corpo che si fa occhio?
Il protagonista, un ragazzo che abita temporaneamente gli appartamenti di persone assenti, per vivere un'intimità che trova forse solo in luoghi a lui estranei ma in cui entrare in contatto, semmai per ripararli.


Il film di Kim Ki-duk gode di quella precisione ma anche violenza e razionalità, che non appartengono al regno della realtà: riesce perfettamente a distaccarsene tendendo verso il sogno, l'impossibile. Alla fine del film compare una frase dello stesso Kim secondo cui "è difficile dire se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà". È un concetto espresso da molte storie e molti film, anzi è il cinema stesso che gioca su questa ambiguità, ma Kim Ki-duk ci avvicina ad essa col sorriso di chi sa e si stupisce, e che ci permette di accettare e condividere un segreto di libertà. E allora più che parlare da un punto di vista formale dell'invisibilità graduale del protagonista che dalla sua auto-oggettivizzazione nelle sue foto digitali si trasforma in pura soggettiva e infine in perfetto allineamento di corpi e di ombre, sono spinto di più a sottolineare l'assenza di parole dei due protagonisti, un gesto disarmante e anarchico, individuale, intimo e unico che ricorda molti altri film orientali, dal Takeshi Kitano de Il silenzio sul mare e Dolls allo stesso Kim Ki-duk di qualche anno prima in Bad Guy.


Kim Ki-duk, i cui film sono pieni di distruttività e di violenza, utilizza l'orrore e il sadismo non come fini a se stessi, ma come un sacrificio per riportare l'umanità a uno stato precedente a quello della sua contaminazione con una realtà crudele.

da
cinemacoreano.it
 
16.3.05
  Insomnia
Le aspettative per questo terzo film di Christopher Nolan, dopo l'originale Memento e l'interessante Following, erano abbastanza alte, tenendo anche conto dell'ingaggio di Al Pacino e della seconda prova da antagonista di Robin Williams.
Prendere una pellicola norvegese del 1997 e rifarla quasi inquadratura per inquadratura non è una grande sfida per un regista che aveva promesso qualcosa di nuovo nel genere thriller. Non tutto gioca a suo favore, però bisogna ammettere che i presupposti per un film interessante c'erano e, se Nolan avesse saputo caratterizzare meglio i personaggi (eppure alcune frasi non sono male) e drammatizzare meglio, sarebbe potuto uscire un ottimo film. Invece siamo di fronte ad una pellicola che non sottolinea benissimo l'abbandono sensoriale del protagonista e non crea un buon coinvolgimento nello scontro tra il detective e l'assassino. Quest'ultima mancanza sarà forse anche da imputare al poco affiatamento tra Pacino e Williams, una coppia molto strana, due attori decisamente diversi (ma è meglio ritornarci dopo).

Per una giovane polizziotta dell'Alaska, il detective di città è una piccola celebrità nel settore: la sua naturale predisposizione nel muoversi nelle indagini e nel cogliere i minimi dettagli di un corpo ormai morto, verrà questa volta messa in discussione fino a crollare. Preoccuparsi dei dettagli e non accorgersi dell'evidente fenomeno del sole che non tramonta, sarà il primo e unico errore che costerà caro al detective. A sconfiggerlo è sia l'ambiente sempre luminoso che lo espone da subito ai suoi limiti sensoriali e fisici, che la fiducia che ripone nelle sue capacità di controllo di ogni sua azione. Il detective si accorgerà di non essere infallibile e che non gli sarà più possibile nascondere i suoi errori. Anche Nolan si occupa di dettagli: quello iniziale delle mani è ormai una sua firma.

L'abbagliante e insolita scenografia naturale è tutto il film. L'Alaska sembra un'immenso Overlook Hotel dove la realtà non diviene allucinazione e viceversa, ma dove il corpo umano è messo sotto sforzo. Gli occhi del protagonista vorrebbero chiudersi e commettono l'errore di non saper più distinguere. La percezione viene provata e annientata. Ecco che si ritorna ai motivi alla base del film come anche a quelli di Memento: l'allontanamento delle facoltà percettive dal sè, il non riconoscersi più nell'affidabilità dei propri gesti e movimenti, il diluirsi e il crollare dell'edificio dell'identità.
Lo scrittore assassino interpretato da Williams approfitta dei limiti sensoriali di quest'uomo fuori dal suo normale contesto. Egli vorrebbe convincersi e convincere il detective che l'uccisione sia solo stato un incidente e a sua volta il detective vuole nascondere l'omicidio del suo collega per non incappare in spiegazioni difficili e per non portare a galla vecchie procedure investigative illegali. Entrambi e in modo diverso sembrano voler nascondere la loro fragilità: ed è lo stesso Williams che affermerà che la fragilità umana è un grande tabù che non siamo disposti ad accettare. Basta perdere contatto con la realtà, non saperla e poterla controllare più, per incappare in uno scatto di irrazionalità o sparare alla cieca un proiettile, ed entrambi sono effetti di volontà sopite e inconfessabili. L'ambiguità della nebbia, la sua opacità e la luce senza fine, sono gli elementi che porteranno alla confessione del crimine e dei crimini. Il detective è alla resa dei conti con se stesso e quella luce sempre presente sembra la lampada che i polizziotti rivolgono con insistenza negli occhi del criminale quando devono interrogarlo. La morte è forse quell'atto che sapeva di meritare ma che voleva evitare e nascondere. L'Alaska come luogo da cui fuggire o verso cui fuggire, cmq un posto dove negare la propria identità e restare estranei alla normalità, in un certo senso è anche un ultimo avanposto per decisioni giuste e definitive.



Nel complesso potrei considerarlo un film neutro: nessun accento particolare, nessun lavoro realmente drammatico su un solo elemento del film, forse solo sulla fotografia...
Il montaggio di
Dody Dorn (che ha già lavorato per Memento e il curioso e quasi sperimentale Guy) non osa più di qualche stacco veloce delle inquadrature in alcune scene e nei flash della memoria. Per fortuna Nolan non esagera con i dettagli.
Al Pacino non sembra del tutto convinto di quello che fa. Come ho scritto prima, i personaggi non sono caratterizzati benissimo. Per un attore come Pacino ci si aspetterebbe maggior attenzione; lui vorrebbe anche mettercela tutta, ma non basta corrugare la fronte e socchiudere gli occhi per fare un mezzo sonnanbulo. Nolan non ci dà l'opportunità di identificarci pienamente nel detective, di più nel paesaggio. Bella la fotografia di
Wally Pfister (ormai coppia fissa col regista), vien voglia di salire in Alaska per ammirare quella natura sempre sveglia. Williams pare convincere di più che in One hour photo perchè gioca su se stesso, costruendo il personaggio (l'unico davvero memorabile del film proprio per questo motivo) sulla sua celebre simpatia: sarà anche il cattivo della storia ma rimane sempre una persona affabile. Dopo il secondo oscar Hilary Swank anche qui la si guarda con un occhio diverso.

"Lasciami dormire" - Dormer (Al Pacino)
 
11.3.05
  The Butterfly Effect
Memento, Ritorno al Futuro e Donnie Darko. Tre film che balzano subito agli occhi vedendo questa pellicola realizzata da due perfetti sconosciuti e interpretata da giovani attori altrettanto anonimi. Un ragazzo ha dei pazzeschi vuoti di memoria, non ricorda eventi che hanno causato danno ad uno dei suoi due amici e ad un terzo, il fratello di una bambina a cui era legato. Forse è una malattia che porta alla pazzia, come per suo padre prima di lui. Dopo otto anni di allontanamento dal luogo in cui accadeva tutto ciò il ragazzo riprende in mano le memorie che scriveva su dei quaderni; questo gli causerà un ritorno a quegli eventi e cercherà in tutti i modi di spiegarsi come e perchè li ha cancellati dalla memoria.

Non c'è niente di veramente originale in questo film e nemmeno il modo in cui è costruito può essere davvero forte e innovativo, eppure ogni volta che un autore realizza un film sulla perdita della memoria, su spostamenti temporali e spaziali, su illusioni e quant'altro, tutto diviene subito cult. Qualcuno ha gridato al geniale, io mi sento di notare che non tutto convince: difetta tantissimo nella semplicità dei dialoghi ridotti al minimo dello sforzo interpretativo, le relazioni tra i personaggi sono schematiche, quasi stilizzate. Questi giudizi possono sicuramente suonare come delle impressioni negative, per un altro film l'avrei pensata in questo modo, ma per The Butterlfly Effect, di Eric Bress e J. Mackye Gruber, tutto gioca a suo favore. Insomma più che una strizzata d'occhio a questi e altri difetti minimi e massimi (anche di sceneggiatura) di verosimiglianza e di coerenza (gravissimi!), c'è da notare che i due registi non ne fanno un piccolo bignami su grandi argomenti come memoria, pazzia e quant'altro, non mettono tanta carne sul fuoco, narrano anche se scompostamente una storia che non annoia, che appare leggera e gradevole, non ambiziosa e nemmeno furba. Insomma il giusto necessario sacrificando qualcosa.
Ciò che mi ha fatto ricredere è indubbiamente la seconda parte, ma direi di più l'ultima: quegli spostamenti nello spazio del trauma della memoria, lo svelamento del mistero, quel voler "mettere in ordine" del protagonista prende lo spettatore della domenica sera che ha sborsato 7 euro per passare una serata con gli amici senza grosse pretese (ok, l'ho visto a casa e solo adesso, ma fa lo stesso!) Il film tende a rappresentare il trauma anche per lo spettatore, può apparire addirittura violento nel montaggio e nella regia, ma niente si perde e tutto si può gustare con un minimo di sforzo. Le differenze e somiglianze con Donnie Darko inizierebbero e non finirebbero, sarebbe un gustoso gioco di parallelismi, un togli qua e un metti là. Come prima cmq non ho dubbi: The Butterfly Effect è un concentrato diverso ma non tanto dissimile da Donnie Darko, che però nasce come cult e continua come gioco di scavo multimediale, ambizioso e forse anche arrogante. Insomma se Donnie Darko avesse avuto anche un pò della leggerezza di questa pellicola sarei subito corso a comprare il dvd appena uscito. Ma sono cmq discorsi che è meglio non iniziare, soprattutto qui sul web, perchè qualcuno rischierebbe di uscirne non illeso (io, ma solo perchè da solo non ne troverei una conclusione). Questo cinema che continua a dare lucidità ai folli, è molto interessante. Ritorno al futuro dicevo all'inizio: bè, lì la sceneggiatura è perfetta! C'è anche un telefilm a cui può essere collegato: Quantum Leap, dove la memoria difettosa del protagonista va sotto il nome di "the swiss-cheese effect".

"Stop Crying Your Heart Out", canta Noel Gallagher nei titoli di coda: dopo aver rimesso l'inconscio e la realtà al proprio posto è bene che il suo naso non pianga più sangue.
Da notare che i due registi hanno sceneggiato anche Final Destination 2, prodotto di pessima fattura. Mi dispiace per loro.
 
  Million dollar baby
Frank è un uomo che vuole gettare la spugna nel momento in cui le probabilità di farsi male sembrano più alte di quelle di vittoria; un uomo che non si arrende, nè scappa, ma ha imparato dalla vita a non rinunciare ad essa per i mezzi e i modi attraverso cui ottenerla.
Se decidi di raccontare una storia di boxe, essa non può che trascendere verso i motivi di riscatto sociale e verso la metafora della vita, motivi di cui Clint Eastwood tiene conto e che, a sua volta, riesce a farne un luogo di profonda riflessione morale. La figura del pugile è forse sempre stata, tra i film nel mondo dello sport, quella più delicata da trattare, forse perchè l'individuo che lotta per se stesso e altri in uno spazio ben delimitato come il ring ci fa assaggiare meglio di ogni altro la concretezza del vivere difficile senza spazio per eroismi di alcun tipo. Certo la materia da modellare non è grezza, di film ce ne sono e ce ne saranno ancora, però il vecchio Clint fa finta che nulla sia mai stato narrato sulla boxe e parla a noi spettatori come a un parente che non vede da molto tempo ma a cui è sempre affettivamente vicino, iniziando dalle basi, dalle sue regole fondamentali di rispetto, di distanze vitali, di quantità e di pesi distribuiti da un corpo ad un altro. Quello di Maggie Fitzgerald è un corpo ormai maturo e ormai poco adatto all'allenamento, eppure la sua volontà di combattere è la sua parte ancora grezza che necessita di qualcuno che le dia forma ed espressione. Il talento non manca alla donna, ma ciò di cui ha bisogno è la comprensione, anche paterna, delle sue difficoltà, dello sforzo per costruire la propria vita. I tre personaggi, ognuno in modo diverso, sono storie di vite interrotte sul loro finire, all'apice del loro compimento, vite che non si reggono da sole, che hanno bisogno dell'umanità (nel senso più vasto e più stretto del termine) del prossimo, un' umanità che che redime dalle colpe. Quelli di Clint Eastwood sono personaggi che camminano lungo il loro oscuro destino e si incontrano (ri)scoprendo il senso o l'occasione della propria vita. Non destini che si incrociano, ma destini che si compenetrano.
Il maggior pregio di questo film è quello di aver messo in scena gli uomini e la loro più alta essenza senza cedere in alcun modo (ed è difficilissimo) a rappresentazioni marcatamente drammatiche, raccontando tutta la storia immerso in una tranquillità e sicurezza espressiva senza paragoni.

Il sistema a tre personaggi funziona anche questa volta. Morgan Freeman, voce e spirito della palestra, copre un ruolo mistico, come quel fiume che unì e divise i tre bambini in Mystic River, ma non così perfetto da meritare l'oscar; Clint Eastwood davanti alla macchina da presa da forza a un personaggio robusto e sensibile alla vita, ma dietro sa mostrarsi migliore; Hilary Swank è umile e determinata come il suo personaggio, lo sforzo vale l'oscar.
Senza musica, solo un lieve e impercettibile accenno di chitarra, questa storia è potente perchè si fonda anche su dialoghi che odorano di concreta saggezza.
L'Academy onora il merito di Eastwood e non la persona di Scorsese, fortunatamente e giustamente.


 
portate un cucchiaio

Nome:
Località: Napoli, Italy
ARCHIVES
settembre 2004 / ottobre 2004 / novembre 2004 / gennaio 2005 / febbraio 2005 / marzo 2005 / aprile 2005 / maggio 2005 / giugno 2005 / luglio 2005 / agosto 2005 / settembre 2005 / ottobre 2005 / marzo 2006 / aprile 2006 / maggio 2006 /


Powered by Blogger