videobrodaglia
16.2.05
  La doppia vita di Veronica
Il tema dell'archetipo del doppio visto da Kieslowski nel '91.

La "doppia vita" del titolo in realtà si riferisce a due donne: uguali fisicamente, differiscono solo perchè i loro destini hanno preso pieghe diverse ma simili a partire da un piccolo episodio della loro vita. Entrambe amano la musica: l'una è una cantante lirica, l'altra insegna musica ai bambini. La prima muore per un infarto, l'altra vive avvertendo la presenza di una vita parallela alla sua, ma che non riesce a spiegarsi, come se la morte della prima avesse influito sulla seconda Veronica. Le due donne non si conoscono, ma sono unite da uno strano senso di solitudine, un senso di unione universale degli uomini per via mistica, destini che impercettibilmente si intrecciano e si influenzano. Forse è il mistero del destino e del libero arbitrio che interessa a Kieslowski, ma forse è proprio quel cercare di spiegare per sensazioni la sensibilità olistica del destino in una persona, senza far leva su credi religiosi. Quando la seconda Veronica, quella ancora viva, si accorge della presenza, in una foto scattata durante un suo viaggio, di una persona in tutto e per tutto (tranne per il cappotto) uguale a lei, sembra che tutta la vita le si rifletta in un attimo di sofferenza interiore, mista a consapevolezza di qualcosa di cui ha sempre avuto sentore. La delicatezza di questa scena si iscrive nella storia senza eccessi di alcun tipo, eppure ha un'importanza fondamentale, quasi catartica per lo spettatore. Una doppia vita, come dice il titolo, di cui si fa carico la seconda Veronica: è forse questo il mistero del vivere? Le nostre scelte, determinanti per noi e per altri, hanno un senso universale incomprensibile perchè facenti parte di un piano ancor piano intricato ancora più imperscrutabile?



La mano di Kieslowski ci narra questa storia del doppio con una sensibilità altrettanto "mistica" quanto quella della protagonista. Tutto ci viene detto per immagini e attraverso una musica ossessiva, penetrante nella sua tristezza e semplicità. Le parole hanno poca importanza, i suoni hanno molto più spazio nel gioco di affinità tra due amanti.
Ma la narrazione coinvolgente ed emozionante passa anche e soprattutto per la fotografia. Il film è interamente immerso in un giallo da tramonto autunnale, non ci sono altre sfumature se non un continuo e avvolgente giallo e nero. Ignoro quale possa essere il significato simbolico, è certo però che gli conferisce un senso magicamente irreale. Se questi sono i pregi narrativi, non si può non escludere un'ottima interpretazione di Irene Jacob: ispirata, coinvolta, sensuale e soprattutto bellissima, ha vinto a Cannes '91 il premio per la Migliore interpretazione femminile.
 
15.2.05
  Uno, due, tre!
Eccellente satira di Billy Wilder sulla Guerra Fredda. La velocità dei dialoghi e della recitazione superano addirittura quelli de "La signora del venerdì" di Howard Hawks, vero capolavoro di screwball comedy. La storia è stata rielaborata a partire da una piece teatrale della quale Wilder conserva l'impronta in piani totali di lunga durata, statici e in una fotografia in focale lunga. Tutto è lasciato ottimamente alla recitazione superba di James Cagney che, pare, dopo questo film abbia disertato i set fino all'81 per "Ragtime" di Milos Forman: non so se è stato un bene, ma in "Uno, due, tre" costruisce davvero un personaggio sfavillante.

La storia è quella di un direttore della filiale di Berlino Ovest della CocaCola che, per ottenere il posto di responsabile europeo dell'azienda, accetta di ospitare per due settimane la figlia del suo capo che si trova in America. La diciasettenne però non perderà tempo nel cacciare nei guai il protagonista interpretato da Cagney che solo tardivamente scoprirà del matrimonio tra la ragazza e un comunista della zona Est. Tutto si gioca sulla rivalità ideologica tra Est e Ovest, e il direttore della CocaCola sarà costretto a far di tutto pur di non mostrare al suo capo come non sia riuscito a controllarla rischiando così uno scandalo internazionale e la perdita del suo posto: gran parte del film è infatti una corsa all'ultimo minuto per trasformare il giovane comunista in un accettabile figlio della buona aristocrazia tedesca.
Palloncini della propaganda, un orologio a cucù molto americano, una bionda e provocante segretaria che sarà merce di corruzione per tre industriali russi... questi elementi e una frase in particolare, quella in cui il ragazzo Otto esclama "Tutti in questo mondo sono corrotti?" e uno dei russi risponde "Io non conosco tutti", fanno di questo film una critica wilderiana alle due ideologie. Le battute sono straordinarie: non riesco a immaginare quanto abbiano fatto piegare dalle risate all'epoca!

Non sarà una delle pellicole di Wilder più conosciute, ma merita davvero tanto.


 
8.2.05
  The Abyss
Questo film di James Cameron dell' '89 lo ricordavo soprattutto per il rivoluzionario morphing del serpentone d'acqua; vedendolo per la prima volta adesso The Abyss presenta molto di più, una buona storia e una direzione delle scene d'azione che non risente del passare del tempo.

James Cameron ha trovato nell'acqua l'ambiente giusto, ancora non sufficientemente narrativizzato all'epoca, per dare vita a una visione che ricorda di sicuro "Incontri ravvicinati" per l'approccio e per il senso dell'alieno, ma anche "2001" per quanto riguarda il viaggio verso uno stato di coscienza altro dell'uomo. Le tre ore circa del film non si avvertono per quasi tutto il tempo di visione. Solo l'inizio, con l' entrata in scena dei personaggi, può risultare poco interessante, ma solo perchè oggi ne possiamo ricevere una sensazione di deja vu.
The Abyss presenta molti elementi cari al cinema di Cameron, di quello precedente e di quello che verrà: i riferimenti di scenografia e di personaggi ad "Aliens" sono lampanti, per esempio. Un film assolutamente godibile anche per le scene d'azione in gran parte subacquee che dimostrano una notevole dimestichezza di Cameron nel muovere la macchina da presa anche in condizioni non facili. Egli è sicuramente l'unico che, con questo film e il ben più famoso "Titanic", ha saputo fare dello spazio oceanico un luogo in cui cercare, trovare e mettere alla prova l'evoluzione e il comportamento dell'uomo sia in senso tecnologico che solo individuale. Nonostante la visione d'insieme che il film ci offre non sia che positiva, rappresentare però per l'ennesima volta la contrapposizione storica tra l'Occidente americano e la Russia restituisce l'unica nota un pò datata della storia.
The Abyss visto oggi è, come già o detto, un prodotto godibilissimo, coeso e interessante anche per le interpretazioni della coppia Ed Harris-Mary Elizabeth Mastrantonio e affascinante per il senso fantastico simile a quello spielberghiano. La visionarietà del finale è infatti del miglior Spielberg, ma l'uso della musica lascia un pò a desiderare. Alan Silvestri lascia la sua impronta nella prima metà del film con l'impiego di strumenti molto simile a "Ritorno al Futuro", per poi accompagnare la restante parte con sonorità appena percettibili (lasciando l'effetto di suspance al montaggio) e con cori limpidi e impalpabili simili (ma senza mai raggiungerli) a quelli di "Incontri ravvicinati", prendendo un pò dallo stile williamsiano. È da notare però l'assenza coraggiosa di musica nella sequenza del drammatico salvataggio della Mastrantonio.

Un film come The Abyss visto per la prima volta oggi non fa che ritornare alla mente un modo di concepire e realizzare film diverso da quello attuale, e mi riferisco alle grandi produzioni, e fa molto piacere scoprire film del genere.
 
  Waking Life

La tecnica desueta del rotoscoping dona alle immagini un senso di libertà e di instabilità nella rappresentazione. L'inquadratura non esiste più così come le figure, gli attori, la storia: è un film sulla consapevolezza (o non consapevolezza) della visione di un film, dell'esistenza. È un elogio al momento (sacro, baziniano) in cui vogliamo sentire di essere vivi. Inizio e fine si confondono così come la vita e la morte nel sogno.
Non il sonno, ma il sogno della ragione che proietta la sua incertezza e instabilità verso il senso della morte. Visivamente potente, colpisce anche per il fiume di dialoghi che diventano immagini e poi ritornano parole.
 
5.2.05
  Operazione diabolica
Grandioso film di Frankenheimer del '66 che racconta la storia cupa e fantascientifica di un banchiere che cambia identità e connotati facciali, grazie ad una misteriosa organizzazione occulta, per rifarsi una seconda vita.



Un thriller incredibilmente pessimista che fa uso di semi-soggettive irreali (la macchina da presa unita al corpo dell'attore), di inquietanti profondità di campo, distorsioni ottiche e di una fotografia contrastata al massimo. Avanguardistico incubo sul potere, interpretato da un ottimo Rock Hudson. Claustrofobico ed esistenziale con tracce di affari sporchi della politica, colpisce a sangue freddo e di spalle nell'agghiacciante finale, tra i migliori che abbia mai visto.
Il titolo originale è "Seconds".
 
2.2.05
  The Aviator
Il vecchio maestro seguendo le letture del bravo DiCaprio (ri)porta sullo schermo il produttore e visionario Howard Huges: in vita poteva ottenere tutto ciò che voleva, da leggenda americana e del cinema ottiene un film che lo dipinge come creatura divinamente onnipotente, ma umanamente limitata. La visionarietà di quest'uomo non aveva limiti economici e temporali. La gestazione del film "Hell's Angels" è da guinnes dei primati: due anni per qualche nuvola di meno. Più aerei, più velocità, più cineprese.
Più ossessione o più sogno non credo che lo stesso Huges sapesse cosa fosse la sua sete grandezza. Forse era solo sete di latte, un eterno ritorno alla madre e a quel bagno che per sempre l'avrebbe reso fobico verso i batteri: la paura per quanto di più piccolo e invisibile possa esserci. Le sequenze delle prove di volo sono tra le meglio realizzate perchè portano con se lo stile scorsesiano e perchè accompagnate da un'energica musica di Howard Shore. Quelle della festa ricordano "New York, New York" e ci presentano il giovane Huges la cui mente è sempre intenta a pensare a donne e ad affari nel cinema.
Huges è l'uomo che agisce come ispirato, posseduto da una voglia irrefrenabile di ampliare il suo spazio di esistenza (anche quando si chiude nella sala di proiezione in realtà sta facendo i conti in uno spazio, una caverna, mentale per rimodellare lo spazio fisico esterno); è un big fish che non si espande nello spazio stretto del mondo, ma che espande il mondo per starci ancora più largo. Se Marilyn Monroe è l'icona di una bellezza divina, pura e soffocata dallo sguardo maschile, Huges è l'icona di una grandiosità divina minata dal suo stesso riflesso, quello dell'irrisolto edipico. "Il modello del futuro, il modello del futuro, il modello del futuro, il modello del futuro". Howard Huges lo accogliamo davvero nella nostra memoria quando sentiamo queste sue ultime e ripetitive parole, pronunciate allo specchio dell'inconscio.

Scorsese si è divertito a ricreare magnificamente con musica e scenografie, nonchè con buone interpretazioni, il periodo d'oro di Hollywood senza aver lasciato su di esso un altrettanto giudizio forte e sentito alla figura di Huges. C'è una constatazione da parte sua del limite umano al sogno, al genio che qui non è portatore di un ideale (come invece il Tucker di Coppola, che guarda caso chiede al grande produttore un aiuto finanziario per la sua auto del futuro), ma è solo un agire vuoto da riempire con la compassione, quella dello spettatore non di altri. Dunque è un discorso chiuso, una tesi dimostrata sulla leggenda, sul mito e l'icona del cinema e di una nazione che paradossalmente limita se stessa. Un giudizio profondo anche sull'America di quegli anni e di sempre, ma senza incedere troppo su questo aspetto.

The Aviator è un film che avrebbe potuto immergerci di più nel cinema (riesce quasi meglio, da questo punto di vista, il deludente "Sky Captain", anche se la matrice è diversa...). Vaste scenografie, ricostruzioni, luci, ma è tutto visto da uno sguardo più alto dello stesso Huges. Scorsese non ci rende davvero partecipi del momento storico, ci distacca quel tanto per poter compatire la figura di Huges. Grande destrezza nelle sequenze di volo dove mostra una certa pulizia di movimenti (e ci mancherebbe), ma non molto che possa lasciare il segno. Non cade nel dramma retorico di molti biopic, c'è da notarlo, ma ci lascia, a conti fatti, come spettatori in un limbo impreciso. E forse questo è il cinema postmoderno di Scorsese? Non l'ho apprezzato fino in fondo. Cmq, bellissima Kate Beckinsale.

 
1.2.05
  21 Grammi - Il peso dell'anima
Lo spunto è semplice, sembra una di quelle curiosità che si leggono su Newton o Focus: quando muoriamo perdiamo ventuno grammi di peso. Perchè proprio ventuno? Cosa sono quei ventuno grammi? Ad Inarritu non interessano spiegazioni scientifiche, questo numero gli serve solo per dirci che una certa quantità del nostro corpo, il senso della vita (la sua direzione) ci sfugge via. La pretesa di dare senso a ciò che accade con un atto indiscusso di fede o con la consapevolezza scientifica che tutto ha un ordine numerico nel mondo, non ci esimia dal constatare che quanto perdiamo nella morte non è più recuperabile nella vita.

Sottotitolo sbagliato, secondo me. Dell'anima non si parla, il film insiste sull'aspetto contingente della vita: il corpo che cede, che viene sostituito, ferito, pesante, ucciso, inutilizzabile; aperto, perforato, cancellato. Molto "fisica" anche la narrazione che procede per inquadrature strette sui volti e sui corpi tramite movimenti di macchina a spalla e una fotografia sgranata. Ma è il montaggio l'aspetto che più interessa al regista. Frantumazione postmoderna del tempo in unità da ricostruire seconda la logica dell'effetto. La prima mezz'ora è spiazzante proprio per la temporalità spezzata in flashback e flashforward (mai tali fino alla loro ricostruzione), poi ci si abitua e si inzia a tessere la logica della storia. Cede quando essa sfuma e a reggere il film rimangono le interpretazioni di Sean Penn e Naomi Watts, perdendo di vista Del Toro ormai già vittima della vendetta. Il montaggio può ben sostenere la storia per una buona metà del film, però non crea tensione ma scene intensamente drammatiche. C'è da notare però che il montaggio tende a ricreare la casualità dei rapporti sociali, relazioni che hanno un senso solo perchè noi vogliamo darne e non perchè lo presuppongono (come invece in una logica cristiano-ortodossa).
Bisogna ringraziare le ottime interpretazioni dei tre attori (in particolare del Toro) se la drammaticità del film non cede mai. Il finale. Sean Penn è insanguinato, a pochi passi dalla morte: a spararlo è stato Del Toro o la Watts? Si gioca su questo interrogativo che poi non ottiene nemmeno una grande soluzione narrativa (niente di veramente nuovo, insomma). Più interessante invece il destino di Del Toro: si auto-dichiara colpevole dello sparo (senza esserne responsabile), per obbedire a quello che ritiene il suo cammino di cristiano penitente.

Insomma si becca la sufficienza e poco in più per il montaggio della prima mezz'ora e per le interpretazioni (la Watts la facevo più bellina...), in attesa di vedere "Amores Perros" che pare sia migliore.
 
portate un cucchiaio

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Località: Napoli, Italy
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