videobrodaglia
28.6.05
  Sin City
Avrei voluto scrivere questo blog come se fosse uno dei monologhi del film, sarebbe l'ideale, ma non ho mai letto un fumetto di Miller e quel linguaggio non sono riuscito a stamparmelo nella mente. Ecco, parto da questo punto: il film va rivisto. Ed è già un buon segno perchè Batman Begins non mi da questa esigenza.
La prima domanda che che mi viene in mente è sulla paternità di Sin City: ma alla fine è più di Miller o di Rodriguez? Vogliamo metterci anche Tarantino? E ce lo metto. Non mi piace partire dai difetti, soprattutto se il film non merita di essere distrutto, però questa a dir poco originale pellicola non può che avere come unico padre: Frank Miller. E qui andrebbe spulciato tutto il web sia per ringraziarlo che per capire meglio che tipo di disegnatore sia. Peccato allora, perchè Rodriguez avrebbe potuto dare a questi personaggi uno spessore cinematografico leggermente maggiore. Già mi sto annoiando, meglio passare a ciò che mi è piaciuto. Le ragazze, le donne, insomma le puttane del film. Rosario Dawson con quell'espressione del volto e svestita in quel modo merita un film tutto suo; Brittany Murphy e Jessica Alba sono quasi identiche, interscambiabili se non fosse che sono vicino a due diversi attori. Marv (Mickey Rourke) sfonda, anzi spacca, il miglior personaggio, la miglior interpretazione maschile. Dwight (Clive Owen) è invece il più fiacco, sorretto solo dalla gno... della Gail (Dawson). È convincente addirittura il personaggio di Elijah Wood! Michel Madsen basta vederlo per iniziare a ridere, e Bruce Willis? Come scrivevo prima, i personaggi sfondano, ma non abbastanza per poter vivere oltre lo schermo. La trovata geniale resta cmq quella della testa di Jackie Boy, uno spasso vederla sballottata e forata ovunque. E il sangue bianco? Pazzesco! Dei dialoghi porto a casa diverse frasi ben impostate, da mettere come firma, sono soprattutto quelle nei primi due episodi. Per entrare nel film mi ci è voluto un pò di tempo: l'episodio di Marv e Goldie è stato quello che ha permesso al veleno di fare effetto (il film come veleno... ci può stare).
Sin City è un film che ha una sua attrazione ma non mi sento di dire che è un cult, nè un gran capolavoro; è probabile che Rodriguez (che riesco ad apprezzare solo in Spy Kids) abbia voluto fare il suo Pulp Fiction, ma quando Tarantino avrà il coraggio di fargli capire che non è cosa sarà troppo tardi. Se il suo destino è quello di confezionare trilogie, che faccia pure, l'importante è che si impegni almeno con questa.

I personaggi meritano un film tutto loro, senza dubbio.
 
  Batman Begins
Tempi oscuri per il cinema americano. Per la seconda volta in poco più di un mese ci ri-confrontiamo con due miti della parte buia dell'animo umano: quello di Darth Vader che volge al male puro e quello di Batman che scende nella caverna dei suoi traumi infantili. Però è anche tempo di paure: il prossimo La guerra dei mondi si annuncia già come l'ottima riflessione di Spielberg sul panico globale post-11 settembre. In attesa, non si può non vedere questo film di Christopher Nolan che potremmo considerarlo a metà strada tra i due.
La paura ancestrale-archetipica è alla base di questo buon Batman Begins che non ci concede le solite scene d'azione, nessuna grande esplosione nè grandi atti eroici, ma uno sguardo diverso ad un personaggio già conosciuto grazie alla maestria e visionarietà di Tim Burton. Questa e quella di Burton sono opere diverse per ovvi motivi: questo numero zero, dal canto suo, ci porta alle radici dell' eroe, senza scavare molto, senza creare dei grandi antagonisti che non siano quelli creati dalla stessa paura del protagonista. Il conflitto interiore si gioca tutto sulla definizione di valori come giustizia e compassione: soprattutto su quest'ultimo il film calca di più. Ciò che differenzia Bruce Wayne dal suo maestro Ducard (Neeson) è infatti il senso di pietà e di giustizia che non coincide con quello di vendetta. La paura personale di Bruce Wayne, scaturita dai due traumi infantili, si espande da subito divenendo paura collettiva. Ed è su questo piano che si articola la decisione del miliardario di rinunciare alla sua identità per diventare il simbolo di quella archetipica. Bene ha fatto Nolan nel rendere tutto nel film molto chiaro, proprio come conviene ad un prequel: una volta tanto niente è lasciato senza spiegazione. I dialoghi nella prima parte riescono ad esplicitare la filosofia ninja già misteriosa e settaria di suo; altri nel corso del film ripetono parole come "teatralità", "simbolo", "archetipo" e "paura", tanto da far divenire il film una riflessione sul potere simbolico di una maschera, su quello di un eroe. Il fascino di Batman, che questo film sottolinea, è quello di un ricco filantropo che sa porsi dalla parte degli indifesi: si fa carico del senso di giustizia calandosi nell'incubo metropolitano e divenendo egli stesso una sua creatura salvifica, la fenice dell'inconscio collettivo.

Ritornando al film, pur essendo molto cupo e schierando ben tre antagonisti (Ducard, lo Spaventapasseri e il boss mafioso), non riesce però a creare picchi di intensità drammatica: tutto sembra stendersi sullo stesso ritmo, non c'è tensione ma solo la curiosità di sapere come si concluderà. Mi resta da capire se le scene d'azione siano mal riuscite o lo stesso Nolan ha voluto renderle incomprensibili per dare miglior spazio alla nascita del simbolo/eroe. Un difetto lampante è la mancanza di una vera storia d'amore. Katie Holmes è nel ruolo che le spetta, ma il suo personaggio, Rachel Dawes, non dimostra il grande amore per Bruce Wayne, a stento riescono a stare insieme per qualche minuto. Christian Bale continua ad essere molto bravo, nonostante abbia recitato con una sola espressione. Ci sarebbe da notare che questo stesso attore ha già interpretato il figlio di una ricca famiglia: come quel protagonista anche il piccolo Bruce dovrà crescere senza genitori (con modalità e tempi diversi, ovviamente).
Un difetto di cui potremmo nemmeno farci caso se non avessi come confronto la pellicola di Burton, è la colonna sonora: una piattezza incredibile, anzi roboante. Davvero tutt'altra cosa l'energia della musica di Danny Elfman, sempre grande.

Nel complesso Batman Begins sembra più lungo di quanto non sia, difetto da imputare all'assenza di drammaticità, ma è cmq godibile e un buon prequel. Adesso spero solo che Nolan si dedichi ad idee più originali.

(da ritoccare)

 
24.6.05
  La ragazza con l'orecchino di perla
Molti film sulla pittura sono grandi agiografie più o meno riuscite sull'artista, le sue difficoltà economiche, le sofferenze esistenziali, la rappresentazione dell'atto creativo, il genio dietro ogni opera, la fama e la morte. Peter Webber con "La ragazza con l'orecchino di perla" lascia fuori una volta tanto questi sviluppi, decidendo di portarci all'interno del dipinto.
Letteralmente inquadrati, sia lo spettatore che i personaggi danno e subiscono il movimento della composizione che sempre più esige di essere seguita nel suo segreto. La ragazza del titolo/quadro è fin dall'inizio pedinata da un fascio di luce che le illumina il capo, il volto e gli occhi, cercando e trovando un affanno claustrofobico che risiede nella compostezza e nell'obbedienza. Il film scova, fa emergere ma non dà soluzione alla sofferenza racchiusa in un dipinto. La stessa sofferenza di cui la ragazza è il punto di applicazione e il committente colui che la esercita attraverso la suocera, il pittore e la moglie: tutti penetrati dall'arte come l'ago penetra il lobo della ragazza. Ogni ruolo è una funzione dell'arte, espressione tangibile e libidinosa dell'animo umano.
Il film, in quanto quadro in movimento, ci permette di toccare il tratto di Vermeer al prezzo di far solo sfiorare i suoi personaggi col tatto e le poche parole. E a ben vedere è proprio il tatto il senso più sviluppato dai due uomini sulla ragazza. La metafora sessuale, così, è al centro di gran parte della storia: lo stupro è la sua forma più evidente. Il buco nell'orecchio necessario per ricavare l'ombra dell'orecchino di perla sul collo è il prezzo che qualcuno deve pagare per soddisfare il piacere della ricchezza. Metafora sessuale esplicita anche quando Vermeer chiede alla ragazza Griet di inumidire le labbra, di togliersi il copricapo bianco per osservare meglio il volto pallido, facendole così scoprire la parte del corpo più intima, i capelli.

Fotografia, nemmeno a dirlo, sopraffina, interpretazioni molto convincenti. La scenografia è davvero l'elemento che sorprende di più perchè nella necessità di far parte dell'intento pittorico del film, non scade nel ruolo di semplice sfondo. Anche solo per questo motivo il film meriterebbe di essere ricordato come metro di riferimento per tutti i film in costume.


In verità il film mi fa pensare anche alla donna come modello della rappresentazione e soprattutto al modo in cui assolve oggi a questo compito: dalla moda alle foto dei calendari. Differenze abissali :-|

 
12.6.05
  Velluto Blu
Si apre e si chiude con l'abbraccio perverso e inquietante tra i due elementi del reale, del sogno-incubo: la luce e il buio. Uno steccato luminoso, fiori gialli e la vita serena delle persone che innaffiano il loro giardino, si poggiano e si ergono su un mondo oscuro e impenetrabile alla vista, accecata e allucinata da una luce violenta e inquietante. Allo stesso modo nel finale, il pettirosso stringe nel suo becco gli insetti neri di cui si nutre: qualcosa di torbido, un'immagine simbolo di tutta la poetica di Lynch. Ciò che c'è in mezzo a queste due parentesi ha un sapore indefinibile di depravato e squallido.

I sensi costruiscono e definiscono il reale, ma il reale non si lascia definire in categorie nette di bene-male, ma in infiniti contrasti, anzi in sfumature tendenti sempre di più al buio. È incredibile come questa grandiosa pellicola di Lynch sia così profondamente e pesantemente scura da essere impenetrabile a qualsiasi sguardo, se non quello ingenuo del protagonista che conserva una assurda lucidità di fronte a spettacoli malati in cui si fa ingoiare e poi sputare.
Su questo film c'è da parlare per ore. Basterebbe solo pensare a come Lynch riesce a creare in esso lo stesso buio di una sala cinematografica, come annulla i confini con lo schermo. Esso diviene una nebbia nera che si dirada lentamente, avvolgendoci senza che ce ne accorgiamo. Ma basta pensare al posto che occupano in primo piano quasi tutti i cinque sensi che si scambiano le funzioni, che si occultano e si lasciano scoprire...

La prima impressione alla visione di ogni film di Lynch è quella di uno squallore morboso che opprime, anzi divampa; in Velluto Blu il punto di rottura, o meglio il punto di non ritorno (esattamente un orizzonte degli eventi che si estende a tutto il "reale") è nella scena dello stupro di Dorothy (Rossellini): visione insopportabile all'ennesima potenza, fino a quando non risucchia la nostra (ingenua e innocente) curiosità, rendendoci avidi e altrettanto perversi.

Senza parole.
 
7.6.05
  Una pura formalità
Sottovalutato o solo perso-dimenticato-non recuperato, Una pura formalità di Giuseppe Tornatore merita molta più fama di quanta non ne abbia. Il film uscì nelle sale nell'anno tarantiniano 1994 lasciando gli spettatori poco convinti di quello che avevano visto: un plot che rimanda al thriller ma che lentamente si apre in un film ben più unico e anomalo, fino al finale sorprendente.
La storia è quella di uno scrittore, Onoff interpretato da un ottimo Depardieu, che viene sottoposto ad un duro interrogatorio kafkiano in una isolata postazione di polizia; il commissario, suo estimatore e profondo conoscitore della sua opera, lo costringe a confessare un omicidio compiuto poco prima della sua cattura, e del quale è sicuro di non esserne la causa. La soluzione del caso arriverà solo alla fine, come di norma, ma Tornatore è maggiormente intenzionato a narrare la desolazione e la sconfitta di un personaggio che ha perso tutto e che non riesce a ricordare l'evento più significativo della sua vita, quello per cui viene interrogato.

La scenografia, in questo caso, rappresenta perfettamente la insistenza ossessiva dello stato d'animo del protagonista come anche dell' atmosfera enigmatica in cui è immerso l'interrogatorio: un commissariato decrepito e una pioggia diluviale che non smette di scendere nemmeno nelle sue stanze. Il film è una perla per la capacità di Tornatore nell'articolare una storia meditata e profonda sulla memoria e l'identità (ma anche sull'arte della letteratura che non ha autori..) senza mai uscire da una stanza di pochi metri quadrati: esso si svolge nelle classiche unità di tempo e spazio (ala Polanski prima maniera) che il regista reinventa continuamente con inquadrature sempre diverse e insolite (da dentro la macchina da scrivere o dall'acqua del gabinetto), e con un montaggio che tiene sempre in costante ed enigmatica vicinanza i due diversi volti che si incontrano e scontrano senza schiacciarsi. Entrambi i personaggi rivelano di sè quello che vogliono e possono creare e far credere nell'altro, in una dinamica che li costruisce come se l'uno fosse la tessera mancante dell'altro.

In questa pellicola si amalgamo perfettamente una sceneggiatura insolita, solida e molto interessante, una scenografia, una regia e il montaggio tutt'altro che presuntuosi, una colonna sonora firmata da Morricone che segue in modo altrettanto perfetto lo sviluppo narrativo con una partitura atonale; ma c'è tanto altro come dellle interpretazioni memorabili. Mai un Depardieu tanto pieno ed esplosivo di sè, come anche un Polanski che riesce a misurarsi/trattenersi nella perfetta rappresentazione del commissario-carceriere-aguzzino di un'esistenza.
Sicuramente dopo la visione ci si stupisce di come "Una pura formalità" anticipi di anni una storia come quella de "Il sesto senso" o "The Others", precorrendo e superando per drammaticità, atmosfera e rivelazione finale. Perciò sembra strano che nessuno abbia saputo ancora riportarlo di nuovo all'attenzione.

In sintesi si potrebbe definire "Una pura formalità" un momento che si protrae all' infinito, un meccanismo che ripete se stesso perchè inceppato, ma è anche un dubbio, un vuoto, l'eterna confessione che mira al disvelamento di se stessa. Un film metafisico.
Ma tutto forse è sintetizzabile in due parole: una grande menzogna e la grande verità.
 
1.6.05
  Lost in Translation
In attesa del suo prossimo film su Maria Antonietta, Sofia Coppola è ancora identificata con la sua lodatissima seconda pellicola, dal bel titolo e dalle premesse interessanti. È un film carino al punto giusto, curato e sentito ma talmente delicato da rischiare di perdersi in un rarefatto ricordo.
La giovane regista mette in scena l'incontro tra due diversi americani in un hotel di Tokyo: una ragazza lasciata sola dal marito fotografo e un attore in Giappone per uno spot, persi nel presente come anche in un futuro a cui si affidano senza troppe angosce, riusciranno ad unirsi brevemente sul sottile filo del bisogno di affetto.
La storia è la piacevole ma malinconica illusione di due giorni, in cui i protagonisti sconfiggono l'isolamento e la soffice solitudine dei sentimenti. Il bar, l'hotel, la città, il Paese sono le dimensioni invisibili e sovrapposte che non esistono più, prigioni che non hanno senso se non quello di farci percepire e riscoprire le relazioni umane.

Lost in Translation è un ottimo film perchè rende molto chiaro il senso di dispersione che caratterizza la post-modernità. L'ambiente dell'hotel non è claustrofobico, ma soffuso, ovattato, non opprime ma agisce indisturbante come uno sfondo virtuale. I due personaggi non possono che conoscere la città di Tokyo attraverso la sua stramba oggettistica e la buffa e mediocre televisione; ma solo apparentemente questa città è diversa dalle altre. Essa è solo un quartiere diverso o un nuovo appartamento dello stesso e unico villaggio globale, dunque niente di nuovo nemmeno tra le aspirazioni e i gusti della gente giapponese. La Coppola ha saputo centrare il discorso post-moderno sul non-luogo facendo emergere la purezza e la semplicità di una relazione fugace ma incisiva. La scena dell'imbarazzante discussione dei due americani sul letto è quella più rappresentativa del loro rapporto: presente e futuro incerti, entrambi non sanno che direzione far prendere alle loro azioni. Si vive il momento. L'ultima sequenza è invece quella più toccante: pochissime parole e un abbraccio tra la gente che non vuol sapere di essere freddo, vere e proprie particelle virtuali. In modo diverso, perchè più verbosa, la grande e anomala pellicola di Richard Linklater "Before Sunrise" mette in scena un simile romanticismo malinconico ma molto più deciso e rivoluzionario: stessa, o quasi, unità di tempo e di luogo, quella di Linklater fa accarezzare il rapporto intellettuale di due anime sconosciute ma aperte alla ricerca delle affinità. In questo film della Coppola, i due personaggi posseggono invece la facoltà primordiale di scoprire e lasciare un mondo: vederlo la prima e ultima volta.
Sentirsi fuori luogo, sproporzionati in un ambiente sconosciuto, inadatti a qualsiasi contatto con la realtà che fugge insieme alle certezze, Lost in Translation è una buona opera seconda su certi sentimenti quanto mai primordiali e attuali.

Al di là dell'adeguata interpretazione della Johansson e di quella più matura ed esplosiva di Murray (anche se in fin dei conti interpreta sempre se stesso...), il film si fa apprezzare ed è carino, ma a tratti pecca di una leggera esibizione di intellettualismo. Non che faccia male ad uno spettatore che desidera vedere una storia d'amore diversa dai soliti stereotipi, ma i personaggi possono risultare un pò fastidiosi rappresentando quella tipologia di persone che vivono nel lusso e manifestano cmq una certa insofferenza per la vita. Alcuni possono trovare questo aspetto più insopportabile di altri.

In ultimo, Lost in Translation è un film appartato che sa godere anche di una buona colonna sonora in sintonia con il minimalismo delle immagini: alcuni pezzi sono da possedere e ascoltare nei momenti di rilassamento mentale.
 
  Zatoichi
Quel tic di un Takeshi prima o poi avrebbe realizzato un film talmente spassoso da farci dimenticare che stiamo vedendo un film chanbara, portandoci a (sor)ridere e a muoverci sulla sedia come se stessimo vedendo tutt'altro. E infatti Zatoichi non si prende mai sul serio, illudendo lo spettatore con rovesciamenti di ruolo e personaggi assurdo-cabarettistici, col balletto finale dei zucculilli: molto ben coreografato, un'esplosione di suoni dopo tanti tagli di striscio contro la carne praticati dall'enigmatico massaggiatore. That's entertainment.
Il film è la personale e rispettosa reinterpretazione di Takeshi di un famoso (in Giappone) telefilm e dramma incentrato sulla figura del massaggiatore-ronin non vedente Zatoichi; riprende la storia, si colora i capelli con un innaturale (ma molto beat) biondo e sferra sciabolate che fanno schizzare zampilli di sangue molto CGI e molto più pulp di quello di Tarantino.
È una parodia del genere (super)eroico e del genere wuxia (la lezione di spada con i tre "allievi" è troppo divertente... molto di più di quella in Kung Pow) , ma anche una piccola ma riuscita riflessione sul fallace senso della vista: se non puoi (vuoi) vedere dovrai ascoltare meglio, ma anche se sgrani gli occhi non è detto che riuscirai a vedere tutto. In entrambi i casi l'ascolto resta il senso più affidabile, la fonte del vedere. La coreografia finale si rivela perciò una danza di suoni più che di corpi, e la spada e altre armi sono gli strumenti musicali che hanno suonato durante tutto il film.
Il femofotogramma finale è memorabile quanto la scena iniziale di Hana-Bi: straordinario Takeshi.
 
portate un cucchiaio

Nome:
Località: Napoli, Italy
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