videobrodaglia
26.9.04
  I luoghi comuni della critica
Uno dei tanti sul cinema italiano? "Divi. Mancano i divi. Manca lo star system." Ok, questo non è un luogo comune proprio dei critici, semmai degli spettatori sempre in vena di confrontare il nostro cinema con quello americano. Di frasi del genere se ne possono sentire in grandi quantità, del resto tutti noi sappiamo che gli italiani sono abili a deprecare anche quel poco di buono che si realizza (in tutti i campi). La polemica non passa mai di moda; caderci è molto pericoloso, ma se siamo in compagnia di tanta altra gente può darsi che non ce ne accorgiamo (ancora peggio). Allora per non piangere è meglio riderci su. Ed è quello che ha tentato di fare una firma del sito Cinemi.it, Enzo Battaglia, che ha redatto questo breve dizionario dei luoghi comuni del cinema italiano.
Forse l'ironia non è stata pienamente raggiunta, però mi sembra simpatico iniziare a scrivere sulla critica in questo blog, partendo dal postare la lista in questione.

Americano (cinema). Ha gli effetti speciali ma non ha anima. Uccide il cinema europeo d’autore.
Atmosfere. È un film di atmosfere, colori, sapori, odori...
Attori. Ci sono gli attori, mancano le storie.
Attrici. Quelle brave emigrano in Francia.
Attore/ attrice. Non mi sento un attore. Non mi sento un’attrice.
Autore. È un autore. Film d’autore. C’è tutto il suo cinema.
Bello. “Tutto è bello” (La meglio gioventù)
Carino. Carino ma niente di più.
Cinema italiano. La crisi del cinema italiano. Il giovane cinema italiano.
Cinquantenni. La crisi dei cinquantenni (cfr. trentenni)
Comici. Con i loro film si possono finanziare gli autori.
Commedia all’italiana. La critica l’ha sottovalutata.
Critici. Sono sempre in ritardo.
Divi. Mancano i divi.Manca lo star system.
Documentario. Non lo finanzia nessuno. In Italia manca la cultura del documentario, non come in Francia...
Esordi. Un esordio promettente. Un esordio sincero.
Fellini. Era un poeta, parlava a tutto il mondo.
Film italiano. Non sembra un film italiano.
Intelligente. Però Moretti è intelligente.
Lavoro. C’è stato prima un gran lavoro con gli attori.
Medio (cinema). Finalmente c’è il cinema medio.
Noir. Perché nessuno fa un bel noir all’italiana?
Osare. E’ un film che osa, a rischio di...
Pasolini. Se fosse vivo Pasolini.
Produttori. Una volta rischiavano di tasca loro.
Pubblico. Non bisogna dimenticare il pubblico. Il pubblico italiano vuole questo.
Quarantenni. La crisi dei quarantenni (cfr. cinquantenni)
Registi. Perché si ostinano a scrivere i loro film?
Rughe. Sai, si è fatta evidenziare le rughe.
Rigoroso. E’ un film rigoroso.
Sceneggiatori. Una volta prendevano l’autobus.
Televisione. Ha ucciso il cinema.
Televisivo. E’ un film televisivo.
Tempo (storico). E’ un film che andava fatto in questo particolare momento storico.
Trentenni. La crisi dei trentenni (cfr. quarantenni)
Variety. La Bibbia dello show- biz.
Vita. Un cinema che racconta la vita. Le cose della vita. La vita è bella.

da cinemi.it
 
20.9.04
  Punch-Drunk Love
Adam Sandler

Questo film si pone tra i piccoli gioiellini forgiati dal cinema indipendente americano. Il nome del regista non è più da tempo una novità: già con "Boogie Nights" e "Magnolia" (due lavori corali quanto colossali) aveva fatto conoscere il suo stile e il suo sguardo sull'ordinaria follia umana. Con "Punch-drunk Love", tradotto in italiano con "Ubriaco d'amore", Paul Thomas Anderson mette la sua firma su una storia d'amore e oppressione narrata in modo decisamente non convenzionale.
Barry Egan è l'unico fratello di sette sorelle che esercitano su di lui un controllo asfissiante. Braccato psicologicamente, si sfoga con rapidi scatti d'ira e con improvvisi attacchi di pianto. Tenterà anche di sentirsi meno solo chiamando una linea erotica, che poi gli procurerà altri problemi. L'unico spiraglio di libertà lo trova comprando centinaia di scatolette di budino che verranno poi convertirti in 1000 miglia aeree, unica reale possibilità di fuga. Ma la vera felicità giungerà solo quando incontrerà l'amica di una sorella, grazie alla quale troverà l'amore e la comprensione che gli mancavano.
Riportata in questo modo la storia risulta essere banale e scontata, ma Anderson è lontano dal renderla tale. Il suo "tocco" è originale perchè la rende una storia a tratti surreale e grottesca (gli scontri con i balordi che reclamano i soldi "promessi" alla ragazza della linea erotica), a tratti astratta, cmq molto piacevole e per nulla infarcita di veri rimandi psicologici. Le immagini sono molto cromatiche: il blu elettrico domina su tutti gli altri colori anche grazie a degli originali giochi di luce. I movimenti di macchina sono innovativi per una storia d'amore (Anderson non rinuncia nemmeno ai piano sequenza), così come anche l'uso frastornante della musica (percussioni e simili). Originale anche perchè è enigmatico. L'harmonium, appena lasciato per strada e che poi verrà raccolto dal protagonista, porta subito la storia ad un livello simbolico ed astratto. Quell'ogetto sta a simboleggiare l'occasione che Barry ha per "suonare la sua musica" (quella dell'amore) contro tutti i rumori (delle voci delle sorelle e del lavoro) che lo circondano e che lo investono. "Ubriaco", Barry lo è perciò prima di tutto a
livello sonoro. Un film sul suono e sulla luce (le linee dei riflessi e i controluce stilizzanti), entrambi usati con un forte simbolismo.
Adam Sandler, comico americano poco conosciuto in Europa, s'incarna bene (per alcuni ottimamente) nel personaggio di Barry, così come Emily Watson in quelli della graziosa ragazza.

Peccato che questo film sia passato praticamente inosservato nelle sale italiane. Merita tutto il tempo della sua durata, 90 minuti, pochissimo se leggiamo quella degli altri due film del regista.


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  Fahrenheit 9/11
Il film che fa discutere, il film verità... È, più di tanti altri film, un documento del momento storico che viviamo, la Palma d'oro dimostra quanto avessimo bisogno di un tale punto di vista.
Fahrenheit 9/11 è sconvolgente perchè la tesi dimostrata da Moore non ha trovato alcuna prova che la faccia cadere, dunque si pone come assolutamente veritiera (anche se non completo in tutto). Del documentario è stato già detto di tutto sui giornali perciò non mi va di ripetere ciò che è evidente (la seconda parte è la più fiacca, Moore arranca e abbassa il ritmo della sua ironia per dar spazio alle interviste ai familiari).
Chi decide per la guerra? E perchè si decide di iniziarla? Alla seconda domanda Moore non fa altro che approfondire attraverso le immagini la motivazione che tutti ormai conosciamo: è la guerra di un texano per il petrolio. Alla prima Moore risponde con quell'ironia che tanto è piaciuta a Tarantino: la guerra l'ha decisa (anzi, l'ha "solo" messa in atto) un folto gruppo di imbecilli. Un figlio di papà, peggio di papà, che è sempre in vacanza e un gruppetto di tipi che leccano il proprio pettine o cantano davanti ai giornalisti. Insomma tutt'altro che uomini di politica (eppure in Italia ce n'è uno solo di questi e ne combina anche di peggiori).
È un documentario di immagini che completano il terrore scaturito da quella degli aerei che si scontrano sulle due torri: Bush che riceve la notizia è da brividi, le bare dei caduti americani, il bambino morto, un braccio distrutto, madri che si disperano per i figli morti o per la loro innocenza negli stupidi giochi di guerra. Il nero e l'audio dell'impatto con le torri è agghiacciante. Già nel film collettivo "11 Settembre 2001" uno dei corti (il più duro forse) mostrava solo il nero cinematografico, le urla degli americani sotto le torri e alcuni flash delle persone che si gettavano dai grattacieli si imprimevano sulla retina con impatto maggiore.
Il legami con la famiglia Bin Laden, il senso di terrore provocato nella popolazione americana, il Patriot Act, la manipolazione delle info da parte delle tv... in effetti Moore tocca un pò tutte le questioni scottanti con risultati migliori sul versante finanziario della famiglia Bush grazie all'ironia sprezzante (there's no time to cry, happy happy...).
Si esce dalla sala pensando: mi Dio, è questa la gente che decide per il mondo?!
Agghiacciante.

 
  The Terminal
Spielberg per la seconda volta gioca con le emozioni della commedia: farci dimenticare le paure globali è il primo obiettivo che si pone anche per questo film. L'ultimo uomo spielberghiano è Tom Hanks che dal ruolo di co-protagonista in "Prova a prendermi", passa a quello di protagonista nell'ultimo "The Terminal", intepretando un uomo che attende, con grande pazienza e grande spirito di adattamento, di "obliterare" il mito americano prima di ritornare a casa.

Questa volta al regista interessa la condizione del tutto eccezionale di un uomo che è costretto a vivere in un aeroporto perchè non riconosciuto come persona giuridica; un individuo in uno spazio di confine, fuori da un mondo che controlla tutto e tutti. Dunque, "inaccettato" dall'America perchè non riconosce la sua provenienza, non ha un'identità e perciò non può godere dei diritti in concessione "gratuita". L'America che si difende e controlla non aveva previsto un simile caso che pertanto dimostra come il sistema non sia solido come è stato pensato. La vera falla, lo smacco del sistema burocratico americano si nasconde però nel barattolo che il protagonista porta sempre con se che desta curiosità e allarmismi in chi lo circonda: egli cerca solo di avvicinarsi all'America del sogno, quello del jazz che ha oltreppassato i confini. Eppure ciò non è possibile: difendersi da una minaccia così poco sovversiva, risulta a taluni un bisogno più che necessario, bisogno in questo caso illogico e sintomo di debolezza. Il rapporto che da subito si istaura tra il protagonista e il suo nuovo spazio di azione è esemplare del discorso che Spielberg porta avanti dal film precedente. Viktor Navorsky (un Hanks che nell'interretazione fisica ricorda molto Tati o come tanti hanno scritto anche Keaton) non vuole scappare dall'aeroporto per conquistare troppo facilmente la libertà; egli decide di agire all'interno delle norme sociali (burocratiche), modificandole, in modo del tutto personale e dunque geniale, quel tanto per sopravvivere senza sforzi eccessivi. Così ricava i primi soldi riponendo i carrelli al loro posto, scambiando informazioni tra due persone riesce ad ottenere il cibo che gli serve, attraverso la gentilezza e la sincerità (anche se non ricambiata) cattura l'attenzione di un'assistente di volo, personaggio a lui simile e complementare. "The Terminal" e "Prova a prendermi" dimostrano una certa somiglianza nella messa in scena, nonchè naturalmente nel tono da commedia d'altri tempi. Anche in "Prova a prendermi" il protagonista era capace di adattarsi al mondo grazie alla propria capacità (persuasione), ma in quel caso scappava: trasformava il latte in burro per salvarsi, lo faceva per capovolgere la realtà a suo favore (grazie alla finzione), modificava l'ambiente in cui agiva. In "The Terminal" il protagonista è meno inquieto e più maturo: non scappa e accetta a costo di attendere. Spielberg tocca in modo evidente la realtà quando a Viktor Navorsky gli si offre la possibilità di essere riconosciuto a costo di dichiarare la propria paura: dove troviamo una critica a Bush se non in questa scena?
Con questa seconda pellicola (la terza politica), Steven Spielberg di cerca di conciliare uno sguardo critico alla attuale situazione mondiale con uno sguardo divertito. Ci riesce, ma in parte. Una risata non può in questo caso sostenersi se non c'è un solido sguardo critico. Entrambi gli aspetti si incontrano, ma un pò prima di giungere a una solida maturazione. Appare così una pellicola certamente buona, ma non affinata totalmente. Si nota addirittura una minima prolissità nei venti minuti finali (circa, dal bacio in poi).Tutti i film intorno alla questione dell' 11/9 sono al limite imperfetti: vedi quello di Moore o il film collettivo "11 Settembre 2001". L'unico capolavoro resta "La 25a ora" di Spike Lee: in questo caso abbiamo uno sguardo impietoso sulle colpe dell'uomo, una storia drammatica. Resta perciò da capire qualche sia il punto di vista più efficace per mettere luce sullo stato attuale del mondo: il sorrido che scaturisce dal film di Spielberg, il cinismo di Sean Penn nel suo cortometraggio o il documentario di Moore (anch'esso ironico)? Una nuova pellicola da oggi in sala è "La terra dell'abbonzaza" di Wim Wenders che saprà illuminarci in altri sensi.Con ciò non voglio di certo separare discorsi filmici cercando quello più giusto, sarebbe eccessivo. Riguardo la colonna sonora credo che Williams dimostri sempre come non sia assolutamente banale in ciò che compone. La musica qui coinvolge e sottoilinea nella giusta misura gli avvenimenti del film, però non nascondo che apprezzo di più quella di "Prova a prendermi" che ritengo più varia e "memorabile".


Tutto quello che non ho scritto
" E l'extraterrestre, o meglio l'uomo extra territorio, l'uomo senza patria (a men without a country, come lo chiama Enrique), diventa da un lato un elemento di disturbo dell'attività istituzionale di controllo e vigilanza, ma dall'altra arricchisce il patrimonio umano dell'ambiente, riuscendo persino a intavolare una platonica storia di (quasi) amore con la hostess Amelia (Chaterine Zeta-Jones) sempre perduta in storie con uomini sposati e perennemente in viaggio, in movimento verso altrovi. Ed è in questo iato, in questo stridente contrasto tra il luogo di passaggio per eccellenza, dove si sta il tempo necessario per essere trasportati altrove, e questo altrove perenne che diventa il l'aeroporto per Viktor che sta la forza del film di Spielberg, che sa materializzare il Terminal come una personalissima casa dei sogni, dove tutto è possibile, persino le storie d'amore di cui Viktor si fa tramite, che si concluderanno con un fantastico matrimonio tra Enrique e la bella poliziotta Dolores." da: Sentieri selvaggi

 
13.9.04
  Mar Adentro
L'ultima edizione della Mostra di Venezia si è chiusa senza alcun importante riconoscimento ad un film italiano nella fattispecie quello di Gianni Amelio, lasciando così esterrefatti tutti i critici che ne avevano sottolineato con forza il valore artistico nonchè interpretativo. Tra le varie pellicole papabili del Leone d'Oro c'era anche l'ultimo film di Alejandro Amenàbar, "Mar adentro", che ha ricevuto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, consegnata a Javier Bardem, e il Premio per la miglior regia. Se il film vincitore del Leone d'Oro, "Vera Drake", tratta la difficile questione dell'aborto, "Mar adentro" ne affronta un'altra altrettanto scottante: l'eutanasia. Un film dunque importante e difficile, un discorso portato avanti dal regista senza alcuna esitazione, con grande sicurezza. Amenàbar non è nuovo nell'affrontare la tematica di una condizione sospesa tra la vita e la morte; in questo caso però lo spunto narrativo è dato dalla storia reale di un uomo, tetraplegico condannato al letto da 26 anni, che desidera e fa di tutto per ottenere un riconoscimento giuridico alla sua volontà di morire. Così grazie ad un caso limite il regista ci parla della vita, del suo significato ultimo, della libertà che ogni uomo deve avere per poter decidere di se stesso. Per chi circonda il protagonista, egli potrebbe essere un esempio forte di vita o di irrazionalità, ma anche una fonte di responsabilità come anche un individuo su cui caricare le proprie frustrazioni. Ramon però non desidera tutto ciò: prosegue lungo il suo sogno, un ritorno al punto di rottura (anche in senso letterale) della sua vita, quel tuffo distratto e fatale. Il titolo fa così riferimento alla proiezione immaginifica del protagonista in quell'oceano di libertà senza il peso verso il "fondo" che lo condanna all'immobilità. Attraverso gli occhi, il corpo e infine lo spirito, il mare penetra in Ramon donandogli finalmente la pura felicità, non più il sorriso triste. Condividere e comprendere la decisione di morire prescinde da ogni tipo di spiegazione logica, così come l'amore. Il film calca sull'impossibilità del giudizio altrui ad una tale condizione, offrendo una certa neutralità allo spettatore. Comprendere per il regista equivale a far identificare lo spettatore con il personaggio dell'avvocata: ella si avvicinerà molto alla condizione del suo assistito quando la sua malattia degenerativa la condannerà alla paralisi della gambe. Amenàbar non si esime dall'esprimere un'opinione negativa nei confronti di una normazione giuridica non adeguata a far fronte a casi di eutanasia; è sconcertante constatare come un'individuo sia in questo modo costretto a darsi la morte in modo illegale e facendo attenzione a non coinvolgere altre persone nel concretizzare la propria decisione. Il senso di morte pervade tutta la pellicola. Essa ci appare attraverso la particolare vicenda di eutanasia, come la più naturale delle caratteristiche umane. La morte va dunque accettata per quella che è, anche se nel corso della vita cerchiamo di frapporre ad essa pensieri felici. Ciò che insegna il personaggio di Ramon è così l'accettazione gioiosa della morte, quel nulla da cui abbiamo origine e che cerchiamo di colmare grazie all'immaginazione.
Dalla sala si esce con un vero senso di partecipazione: commossa o meno, sarà la storia di ognuno a determinarlo. Alejandro Amenàbar è un regista che già ci ha parlato della morte, ma in modi del tutto diversi. Basti pensare al penultimo film "The Others" con Nicole Kidman, dove una madre e i suoi due figli non riescono ad accettare la terribile verità che essi siano già morti; oppure il precedente e riutilizzato "Apri gli occhi" in cui Amenàbar sfrutta l'espediente della morte fredda (criogenica) per mostrarci il desiderio di un giovane yankie di poter vivere oltre la malattia, oltre la morte del corpo. Con un maggiore sforzo mnemonico e analitico possiamo ritrovare tracce di questa tematica anche nel primo film "Thesis": qui abbiamo però un'estremizzazione in un simil omaggio agli snuff movies. Nel gioco dei rimandi tra le varie pellicole, cercando di trovare un filo "discorsivo", è curioso notare come l'inizio di "Mar adentro" possa rimandare al finale, o meglio all'ultimo fotogramma, di "Apri gli occhi" dove una voce femminile nel futuro imprecisato del corpo del protagonista, lo accoglie invitandolo appunto ad aprire gli occhi sulla realtà; in "Mar adentro" sempre una voce femminile insegna al protagonista come aprire gli occhi verso lo spirito oltre la corporeità.
 
11.9.04
  Mostra di Venezia: cerimonia di premiazione

Cerimonia di Premiazione in diretta su Raidue. Quale errore più madornale! Se non mi avessero dato la possibilità di vederlo non mi sarei sentito così disgustato e imbarazzato.Una totale assenza di spettacolo, tempi non rispettati, la Gerini (bella donna) totalmente impreparata, Bova... non ne parliamo.Leone d'oro a "Vera Drake" (un film sull'aborto)... ma non era data per certa la vittoria di Amelio? Dovrà accontentarsi di un successo al botteghino... Vabbè si sa, i critici sono una cosa, la giuria un'altra... (peccato).Un misero (ma almeno misero!) premio al bellissimo film di Miyazaki (messaggio di pace, un trionfo dell'immaginazione tra tanti film disperati): essere in concorso è già un miracolo.. forse è meglio accontentarsiPer la migliore attrice... bah. C'è chi favoriva addirittura la Kidman! Io tifavo per la Bruni Tedeschi: brava nel film di Ozon che meritava anche qualcosa. Attrice non bellissima, ma genuinaPer il resto... speravo in una seconda edizione della rassegna sul Cinema italiano dei "b-movies", ma sembra che l'anno prossimo ci saranno film orientali. Non male


 
 

 
 

 
10.9.04
 
Ciao
 
portate un cucchiaio

Nome:
Località: Napoli, Italy
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