Kim Ki-duk ha appena vinto a Venezia 61 il premio per la miglior regia per questo film presentato a sorpresa e subito definito da molti come il colpo di fulmine dell'ultima edizione della Mostra: è un occhio che saluta, è una mano che vede o, ancora meglio, il corpo che si fa occhio? Il protagonista, un ragazzo che abita temporaneamente gli appartamenti di persone assenti, per vivere un'intimità che trova forse solo in luoghi a lui estranei ma in cui entrare in contatto, semmai per ripararli.
Il film di Kim Ki-duk gode di quella precisione ma anche violenza e razionalità, che non appartengono al regno della realtà: riesce perfettamente a distaccarsene tendendo verso il sogno, l'impossibile. Alla fine del film compare una frase dello stesso Kim secondo cui "è difficile dire se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà". È un concetto espresso da molte storie e molti film, anzi è il cinema stesso che gioca su questa ambiguità, ma Kim Ki-duk ci avvicina ad essa col sorriso di chi sa e si stupisce, e che ci permette di accettare e condividere un segreto di libertà. E allora più che parlare da un punto di vista formale dell'invisibilità graduale del protagonista che dalla sua auto-oggettivizzazione nelle sue foto digitali si trasforma in pura soggettiva e infine in perfetto allineamento di corpi e di ombre, sono spinto di più a sottolineare l'assenza di parole dei due protagonisti, un gesto disarmante e anarchico, individuale, intimo e unico che ricorda molti altri film orientali, dal Takeshi Kitano de Il silenzio sul mare e Dolls allo stesso Kim Ki-duk di qualche anno prima in Bad Guy.
Kim Ki-duk, i cui film sono pieni di distruttività e di violenza, utilizza l'orrore e il sadismo non come fini a se stessi, ma come un sacrificio per riportare l'umanità a uno stato precedente a quello della sua contaminazione con una realtà crudele.