Avrei voluto scrivere questo blog come se fosse uno dei monologhi del film, sarebbe l'ideale, ma non ho mai letto un fumetto di Miller e quel linguaggio non sono riuscito a stamparmelo nella mente. Ecco, parto da questo punto: il film va rivisto. Ed è già un buon segno perchè Batman Begins non mi da questa esigenza.
scrivevo prima, i personaggi sfondano, ma non abbastanza per poter vivere oltre lo schermo. La trovata geniale resta cmq quella della testa di Jackie Boy, uno spasso vederla sballottata e forata ovunque. E il sangue bianco? Pazzesco! Dei dialoghi porto a casa diverse frasi ben impostate, da mettere come firma, sono soprattutto quelle nei primi due episodi. Per entrare nel film mi ci è voluto un pò di tempo: l'episodio di Marv e Goldie è stato quello che ha permesso al veleno di fare effetto (il film come veleno... ci può stare).
subito divenendo paura collettiva. Ed è su questo piano che si articola la decisione del miliardario di rinunciare alla sua identità per diventare il simbolo di quella archetipica. Bene ha fatto Nolan nel rendere tutto nel film molto chiaro, proprio come conviene ad un prequel: una volta tanto niente è lasciato senza spiegazione. I dialoghi nella prima parte riescono ad esplicitare la filosofia ninja già misteriosa e settaria di suo; altri nel corso del film ripetono parole come "teatralità", "simbolo", "archetipo" e "paura", tanto da far divenire il film una riflessione sul potere simbolico di una maschera, su quello di un eroe. Il fascino di Batman, che questo film sottolinea, è quello di un ricco filantropo che sa porsi dalla parte degli indifesi: si fa carico del senso di giustizia calandosi nell'incubo metropolitano e divenendo egli stesso una sua creatura salvifica, la fenice dell'inconscio collettivo.(da ritoccare)
Il film, in quanto quadro in movimento, ci permette di toccare il tratto di Vermeer al prezzo di far solo sfiorare i suoi personaggi col tatto e le poche parole. E a ben vedere è proprio il tatto il senso più sviluppato dai due uomini sulla ragazza. La metafora sessuale, così, è al centro di gran parte della storia: lo stupro è la sua forma più evidente. Il buco nell'orecchio necessario per ricavare l'ombra dell'orecchino di perla sul collo è il prezzo che qualcuno deve pagare per soddisfare il piacere della ricchezza. Metafora sessuale esplicita anche quando Vermeer chiede alla ragazza Griet di inumidire le labbra, di togliersi il copricapo bianco per osservare meglio il volto pallido, facendole così scoprire la parte del corpo più intima, i capelli.
La scenografia, in questo caso, rappresenta perfettamente la insistenza ossessiva dello stato d'animo del protagonista come anche dell' atmosfera enigmatica in cui è immerso l'interrogatorio: un commissariato decrepito e una pioggia diluviale che non smette di scendere nemmeno nelle sue stanze. Il film è una perla per la capacità di Tornatore nell'articolare una storia meditata e profonda sulla memoria e l'identità (ma anche sull'arte della letteratura che non ha autori..) senza mai uscire da una stanza di pochi metri quadrati: esso si svolge nelle classiche unità di tempo e spazio (ala Polanski prima maniera) che il regista reinventa continuamente con inquadrature sempre diverse e insolite (da dentro la macchina da scrivere o dall'acqua del gabinetto), e con un montaggio che tiene sempre in costante ed enigmatica vicinanza i due diversi volti che si incontrano e scontrano senza schiacciarsi. Entrambi i personaggi rivelano di sè quello che vogliono e possono creare e far credere nell'altro, in una dinamica che li costruisce come se l'uno fosse la tessera mancante dell'altro.
Lost in Translation è un ottimo film perchè rende molto chiaro il senso di dispersione che caratterizza la post-modernità. L'ambiente dell'hotel non è claustrofobico, ma soffuso, ovattato, non opprime ma agisce indisturbante come uno sfondo virtuale. I due personaggi non possono che conoscere la città di Tokyo attraverso la sua stramba oggettistica e la buffa e mediocre televisione; ma solo apparentemente questa città è diversa dalle altre. Essa è solo un quartiere diverso o un nuovo appartamento dello stesso e unico villaggio globale, dunque niente di nuovo nemmeno tra le aspirazioni e i gusti della gente giapponese. La Coppola ha saputo centrare il discorso post-moderno sul non-luogo facendo emergere la purezza e la semplicità di una relazione fugace ma incisiva. La scena dell'imbarazzante discussione dei due americani sul letto è quella più rappresentativa del loro rapporto: presente e futuro incerti, entrambi non sanno che direzione far prendere alle loro azioni. Si vive il momento. L'ultima sequenza è invece quella più toccante: pochissime parole e un abbraccio tra la gente che non vuol sapere di essere freddo, vere e proprie particelle virtuali. In modo diverso, perchè più verbosa, la grande e anomala pellicola di Richard Linklater "Before Sunrise" mette in scena un simile romanticismo malinconico ma molto più deciso e rivoluzionario: stessa, o quasi, unità di tempo e di luogo, quella di Linklater fa accarezzare il rapporto intellettuale di due anime sconosciute ma aperte alla ricerca delle affinità. In questo film della Coppola, i due personaggi posseggono invece la facoltà primordiale di scoprire e lasciare un mondo: vederlo la prima e ultima volta.