Velluto BluSi apre e si chiude con l'abbraccio perverso e inquietante tra i due elementi del reale, del sogno-incubo: la luce e il buio. Uno steccato luminoso, fiori gialli e la vita serena delle persone che innaffiano il loro giardino, si poggiano e si ergono su un mondo oscuro e impenetrabile alla vista, accecata e allucinata da una luce violenta e inquietante. Allo stesso modo nel finale, il pettirosso stringe nel suo becco gli insetti neri di cui si nutre: qualcosa di torbido, un'immagine simbolo di tutta la poetica di Lynch. Ciò che c'è in mezzo a queste due parentesi ha un sapore indefinibile di depravato e squallido.
I sensi costruiscono e definiscono il reale, ma il reale non si lascia definire in categorie nette di bene-male, ma in infiniti contrasti, anzi in sfumature tendenti sempre di più al buio. È incredibile come questa grandiosa pellicola di Lynch sia così profondamente e pesantemente scura da essere impenetrabile a qualsiasi sguardo, se non quello ingenuo del protagonista che conserva una assurda lucidità di fronte a spettacoli malati in cui si fa ingoiare e poi sputare. Su questo film c'è da parlare per ore. Basterebbe solo pensare a come Lynch riesce a creare in esso lo stesso buio di una sala cinematografica, come annulla i confini con lo schermo. Esso diviene una nebbia nera che si dirada lentamente, avvolgendoci senza che ce ne accorgiamo. Ma basta pensare al posto che occupano in primo piano quasi tutti i cinque sensi che si scambiano le funzioni, che si occultano e si lasciano scoprire...
La prima impressione alla visione di ogni film di Lynch è quella di uno squallore morboso che opprime, anzi divampa; in Velluto Blu il punto di rottura, o meglio il punto di non ritorno (esattamente un orizzonte degli eventi che si estende a tutto il "reale") è nella scena dello stupro di Dorothy (Rossellini): visione insopportabile all'ennesima potenza, fino a quando non risucchia la nostra (ingenua e innocente) curiosità, rendendoci avidi e altrettanto perversi.